Gli insegnamenti di Thich Nhat Hanh ai Tiep Hien

30 maggio 1998, Green Mountain Dharma Center

[Trascrizione letterale parziale della registrazione video. Thay risponde alle domande di alcuni membri dell’Ordine dell’Interessere]

«Cari amici, oggi è il 30 maggio 1998 e ci troviamo al Green Mountain Dharma Center. Ricordo la domanda di un francese che era venuto a trovarmi a Plum Village: Thay, credi che sia facile diventare un monaco? Aveva osservato i monaci che vivevano con me e dopo qualche giorno era venuto a trovarmi per farmi quella domanda. Non gli ho risposto subito. L’ho invitato a fare una passeggiata con me. Alla fine gli ho detto: «Diventare un monaco non è difficile. Il difficile è essere un monaco».

Per diventare monaco, ci vuole una cerimonia di ordinazione, una cerimonia formale per la trasmissione dei precetti. Nella nostra tradizione, devi rimanere qui per qualche mese e fare pratica con gli altri monaci per poter essere osservato e aiutato, e devi chiedere ai monaci di far risplendere la luce su di te. Significa che devi chiedere una guida per poter migliorare la tua pratica. Dopo un certo periodo di tempo, come minimo tre mesi, si può chiedere formalmente la cerimonia di ordinazione. Allora i monaci devono riunirsi di nuovo e riflettere a fondo per decidere se sei maturo per l’ordinazione o no. A volte ti dicono: «No, per dimostrare di avere la capacità di praticare devi fare ancora un piccolo sforzo».

Il giorno in cui, dopo aver beneficiato della guida degli altri, ottieni un sì, ti viene comunicata la data della cerimonia di ordinazione. Da qui ad allora, caro amico, bisogna continuare a praticare seguendo le indicazioni che ti sono state offerte, perché, se non lo fai fino al giorno dell’ordinazione, non ci sarà nessuna ordinazione. Molte persone possono essere ordinate lo stesso giorno, tutte insieme. Questo aspetto è relativamente facile. Ma quando ricevi l’ordinazione e diventi un monaco, ricevi i precetti e cominci a praticare come monaco: pratichi a lungo per la tua trasformazione, per la tua guarigione, e anche per la felicità e l’armonia del Sangha, del tuo Sangha e anche del Sangha più ampio. Ma per me, secondo la mia esperienza, per cominciare ad aiutare gli altri non è necessario un addestramento di quattro anni. Puoi cominciare ad aiutare gli altri già dal primo giorno della tua ordinazione. Per aiutare qualcuno non hai bisogno di essere un Dharmacharya. Se in te c’è felicità, se hai un certo grado di gioia, stabilità e libertà, puoi già essere d’aiuto. Ma anche se non cerchi di aiutare qualcuno, sei comunque d’aiuto, perché il modo in cui cammini, ti siedi, guardi gli altri, respiri, irradia pace e benessere, e chiunque venga a trovarti, vedendo come stai in piedi, seduto, cammini, sorridi, prova un senso di felicità, ha fiducia nella pratica. Questo ti rende un elemento positivo del Sangha. Formalmente non sei un insegnante di Dharma, non hai ricevuto la trasmissione della lampada, sei ancora un novizio, e prima di ricevere l’ordinazione completa devono passare ancora molti, molti anni. Ma in realtà sei già un bodhisattva e un insegnante di Dharma, e nel momento in cui attraversi la folla in un centro di pratica, la luce, che è il tuo sentiero, ti è stata trasmessa da Thay e dai tuoi fratelli e sorelle di Dharma.

A Plum Village ho avuto modo di osservare un certo numero di giovani monaci, monache e laici. A confrontare la loro età e la loro esperienza con quelle di altri monaci e monache, si può dire che sono monaci o monache relativamente giovani. Ma se guardiamo in profondità, ci rendiamo conto che la loro presenza nel Sangha è un elemento molto positivo. Non pretendono certo di essere dei bodhisattva o degli insegnanti di Dharma, non ne hanno alcun titolo, ma per tutti noi la loro semplice presenza nel Sangha è ugualmente un’ispirazione profonda. Io stesso, l’insegnante della comunità, mi sento molto grato per la loro presenza, e mi capita di dire tra me: «Sono davvero felice che lui ci sia, sono davvero felice che lei ci sia». La presenza di questo monaco o di questa monaca offre un contributo importante al benessere del Sangha, anche se lui o lei non ha alcun titolo, anche se non è un insegnante di Dharma e non ha neppure la piena ordinazione.

Per questo ho detto che non avete bisogno di nessun titolo. Non avete bisogno dei quattro anni di formazione previsti. Se avete un certo livello di stabilità, libertà e felicità, se da voi si irradiano pace e felicità, allora siete dei veri insegnanti, non attraverso le parole ma con il vostro essere.

E quando vedo un monaco così, quando vedo una monaca così, o un praticante laico così, so che io devo essere degno di lui o di lei. Altrimenti non posso essere un amico, un insegnante, un compagno. Così, quando guardi un praticante felice, è come avere uno specchio: sai come praticare, cosa fare e cosa non fare per essere degno di quella persona.

Io stesso faccio progressi nella pratica, giorno dopo giorno. Il mio modo di insegnare adesso è molto diverso da quello di trent’anni fa, di vent’anni fa e così via. Giorno dopo giorno non smetto mai di imparare qualcosa di nuovo su come essere un insegnante, un amico, un compagno migliore, e sono un monaco felice. Questo non significa che non ho sofferto: ho sofferto molto, ma ho imparato da quella sofferenza. E le persone che vivono insieme a me e praticano insieme a me mi regalano molta felicità. A volte sento che la realtà è molto più bella di qualunque sogno possibile, anche se la sofferenza è ancora lì, ovunque. Ma se osservi di nuovo la situazione, se sai di essere circondato da tante persone gentili, che si dedicano con entusiasmo alla pratica e sono felici nella loro pratica, e se sei capace di offrirti agli altri come un’isola di pace, un’isola di sicurezza e di gioia per chi si avvicina a te, è davvero molto, ed è incredibile quanto i semi della pratica che diffondi ogni giorno possano andare lontano.

Può capitarti di incontrare persone che vengono da un carcere, da un convento, da un posto molto lontano da casa tua, e allora sai che i semi sono andati molto lontano, più di quanto tu possa immaginare, e possono portare sollievo anche indirettamente. Molti si trovano in una situazione disperata, non solo fisicamente ma anche spiritualmente. Sono bloccati, senza via d’uscita. Se hanno la possibilità di entrare in contatto con gli insegnamenti, possono vedere la porta della liberazione, una via d’uscita, e per questa opportunità di toccare il seme del Dharma proveranno molta gratitudine.

A Plum Village sappiamo e ci ricordiamo a vicenda che dobbiamo fare qualcosa di vero. Non possiamo permetterci di offrire un falso. Prima di tutto, ciascuno se ne rende conto riguardo a sé stesso. Se non sei sincero nella tua pratica, se non fai progressi nella tua pratica, sei il primo a saperlo, e le sorelle e i fratelli accanto a te lo sanno anche loro. Allora non basta sederti lì e fare un discorso di Dharma agli altri se tu stesso non hai avuto l’evoluzione di cui hai bisogno. Per questo, quel che offri agli altri deve essere qualcosa di genuino, che può venire solo dalla tua vera pratica, non da quello che hai imparato dai libri e dai sutra.

A volte i monaci e le monache più giovani aiutano molto i fratelli e le sorelle maggiori. Anche se sono giovani e in molti campi non hanno la stessa esperienza, la loro presenza può comunque contribuire a una profonda trasformazione, e portare freschezza e felicità. A loro ricordo sempre che per offrire felicità agli altri non hanno bisogno di un lungo periodo di formazione. Oggi, già adesso, in questo preciso momento, se sanno come fare, possono già offrire gioia, pace e felicità. La pratica a Plum Village è così. Bisogna camminare, bisogna sedersi, bisogna lasciare andare la rabbia, bisogna rendersi conto che la confusione, la rabbia e la gelosia possono rimanere dentro di come un ostacolo che non permette di essere felici. Ma dentro e fuori di te ci sono anche tante condizioni positive di felicità. Sarebbe uno spreco non lasciare andare qualcos’altro e permettere alla pace, alla felicità, alla gioia e all’amore di trovare posto.

Sapete che i rituali non mi piacciono. Magari avete osservato altri monaci a cui piace indossare dei paramenti per sottolineare l’importanza della forma. Mettiamo che mi eleggiate Papa: la cosa che mi farebbe soffrire di più sarebbe indossare tutte le cose che deve indossare il Papa. E questa è una delle prime cose che mi hanno allontanato da ruoli del genere. Il mio maestro voleva che io diventassi l’abate del tempio radice: non lo disse, ma lo scrisse nel suo testamento. Ma io so di non essere nato per fare l’abate, così ho usato dei mezzi abili per sottrarmi a quel ruolo. E quando me ne sono andato, è stato un mio fratello maggiore nel Dharma a diventare abate, e ora l’abate è un mio fratello minore nel Dharma. Ho dovuto fare molta pratica per permettere agli altri di prostrarsi di fronte a me per dimostrare la loro gratitudine. Era una cosa che non mi piaceva affatto, devi stare lì seduto perché qualcun altro possa mostrarti rispetto con delle prostrazioni. Mi ci sono voluti tanti mesi, tanti anni, per accettarlo.

Quando sei un monaco, quando indossi la veste di un monaco, diventi un simbolo del Sangha, e quando gli altri sperimentano la visione profonda del Sangha vogliono mostrare rispetto, vogliono prendere rifugio nel Sangha, e per questo motivo vogliono sempre inchinarsi al tuo cospetto e toccare la terra di fronte a te, perché in questo modo sentono stabilità, pace, calma, fiducia. E dato che io lo so, devo restarmene lì fermo perché abbiano l’opportunità di inchinarsi. Io pratico il respiro consapevole per nutrire la consapevolezza che non è al mio ego che si inchinano. Si inchinano al Buddha, al Dharma e al Sangha nelle sembianze di un monaco.

Voi non siete monaci, molti di voi non sono monaci, ma a volte la gente vi mostra rispetto e per questo potreste cadere in trappola. Dovete imparare la pratica, dovete imparare l’arte di starvene lì seduti e diventare persone libere. Nessuna prostrazione, nessun segno di rispetto può toccarmi. Sto lì seduto e sono una persona libera: per quante prostrazioni facciano gli altri, io rimango comunque una persona libera. Non ne sono toccato. Come pratica, per me non è così difficile, basta sedersi, inspirare ed espirare, e salvaguardare la propria libertà, perché c’è chi è stato rovinato dal rispetto degli altri: fama, profitto. Quando diventiamo monaci o monache, riceviamo l’avvertimento che la fama e il profitto possono rovinare la nostra vita di monaco o monaca, e così non dimentichiamo mai questa lezione.

Quando qualcuno si presenta di fronte a me e fa tre prostrazioni prima di ricevere la lampada del Dharma, io pratico l’ascolto. Quando entro nella sala del Dharma, tutti si alzano per mostrare rispetto all’insegnante. Io faccio ogni passo con attenzione. Non ne sono toccato, non sono affatto colpito dal rispetto che mi è stato mostrato. Forse non ve ne siete accorti, ma dovreste sapere che il vostro insegnante può essere una persona così. E quando toccate la terra davanti a me per presentare la vostra gatha di visione profonda, io ascolto con le orecchie del mio maestro. Ascolto con le orecchie dei maestri ancestrali, e so che dietro di me c’è il mio maestro, che dietro di me ci sono molte generazioni di insegnanti, e vedo che il rispetto che mostrate al Buddha, al Dharma e al Sangha non mi tocca affatto personalmente. È per questo che posso essere molto felice quando sto seduto lì, perché so come svuotare me stesso, il mio ego: «Sei un Tiep Hien. Devi imparare dal tuo insegnante a non lasciarti toccare dalla fama o dal rispetto». In realtà sono piuttosto timido. Posso parlare a una folla di 5.000 persone, ma questo non significa che non sia timido. Quando viene a trovarmi un bambino o una bambina, mi sento timido anch’io. A prima vista può sembrare che a essere timido sia il bambino o la bambina, ma sono timido anch’io, perché in quel bambino o in quella bambina vedo un universo completamente nuovo da esplorare con tutta la mia presenza. C’è chi guarda il bambino e pensa che in quel bambino non ci sia niente di spettacolare, ma per me non è così: quando mi trovo di fronte a una persona nuova, so che lì di fronte a me è rappresentato il mondo intero, e ho sempre qualche ritrosia ad avvicinarmi a lui o a lei, perché vedo che in quella persona ci sono tanti misteri.

Ancora oggi, se fate una donazione e la mettete in una busta, 10 franchi, 100 franchi, provo sempre un certo imbarazzo. Finora non sono mai stato in grado di accettare un’offerta senza imbarazzo: ogni volta che ricevo una donazione mi sento un po’ a disagio. So bene che la donazione non è fatta a me, è fatta al Buddha, al Dharma e al Sangha, eppure non mi piace. E se sei un abate, non puoi comportarti come faccio io, perché io cerco sempre di evitare i donatori e dico se per favore possono rivolgersi al tale fratello o alla tale sorella, all’abate dell’Upper Hamlet e alla badessa del New Hamlet. Dico di contattare loro, ma i donatori non sono contenti, vorrebbero un riconoscimento da me per il loro contributo. Ed è per questa ragione che mi è stato chiaro fin dall’inizio di non essere nato per fare l’abate. Per essere un abate devi operare meglio. I miei studenti possono essere abati migliori di me all’Upper Hamlet e al New Hamlet: penso che nel ruolo di abate siano davvero migliori di me.

Diventare un monaco non è difficile. Essere un monaco sì. Lo stesso si può dire di un Tiep Hien. Si può organizzare una cerimonia di ordinazione, si possono ottenere lettere di sostegno dal proprio sangha locale. La cosa può essere un po’ complicata e andare per le lunghe, ma nell’insieme è piuttosto facile. Ma praticare come membro della comunità nucleo non è facile.

Essere ordinati Dharmacharya è facile. Ma essere un vero insegnante di Dharma no. Come monaci e monache dobbiamo ricevere formazione più e più volte, ogni anno, almeno per tre mesi, durante il ritiro delle piogge e in altri ritiri. La nostra formazione è ininterrotta. E anche come insegnanti di Dharma bisogna ricevere una formazione sempre più approfondita, non nell’abilità di fare discorsi di Dharma o di organizzare ritiri, ma nell’abilità di essere felici come praticanti. Se non sei felice, non sei un buon insegnante di Dharma.

Se un laico è felice, anche se è giovane e nuovo alla pratica, vuol dire che la pratica gli dà gioia. E per questo è un vero insegnante di Dharma. Quindi non sono solo i monaci e le monache a dover sempre continuare a formarsi all’arte di essere felici: anche gli insegnanti di Dharma devono sempre continuare a formarsi all’arte di essere felici. E anche i membri della comunità nucleo, dell’Ordine Tiep Hien, devono sempre continuare a formarsi all’arte di vivere felici.

Se la confusione, la gelosia, la rabbia continuano a bloccare la strada, la felicità non sarà possibile, e come insegnanti o membri dell’Ordine non avrete molto da offrire. Ognuno di noi, dopo aver ricevuto l’ordinazione diventando un membro del Sangha nucleo, dovrebbe comportarsi nella comunità come una sorella maggiore o un fratello maggiore, offrendo alla comunità felicità, armonia e libertà. E senza una pratica quotidiana, senza sapere di poter fare affidamento sulla pratica, non avremo abbastanza felicità e amorevolezza da offrire. Possiamo essere bravissimi organizzatori, possiamo saper fare un discorso di Dharma molto elegante, ma questo non significa che siamo capaci di offrire felicità alle persone. Per poterne dare, devi averla.

La vostra libertà è molto importante: libertà dalla rabbia, libertà dalla confusione, libertà dall’invidia. Per noi è molto importante praticare l’offerta del Dharma: il Dharma che offriamo non è quello delle registrazioni o dei libri, ma il Dharma vivente che creiamo ogni giorno. Quando pratichiamo la meditazione camminata e ne traiamo pace e gioia, stiamo facendo un discorso di Dharma. Quando guardiamo un amico e sorridiamo, e comunichiamo bene senza lasciarci prendere dai pregiudizi, da idee preconcette, nel momento in cui siamo lì seduti e guardiamo il nostro amico, un fratello o una sorella nel Dharma, di fatto stiamo facendo un discorso di Dharma, un discorso di Dharma vivente.

Se siete ben saldi su questa base di libertà, di felicità, non sarete più turbati da nulla, né dalle idee degli altri né dalla situazione. Quando in noi c’è libertà, quando in noi c’è felicità a sufficienza, questo ci porta a non dire di non poter essere felici, a meno che non cambi qualcosa fuori di noi. Se aspetti che cambino le cose fuori di te, non sarai mai felice: «Se il mio fratello nel Dharma non cambia, per me la felicità non è possibile. Se la mia sorella nel Dharma non cambia, allora non posso essere felice. Se il mio insegnante non cambia, non posso essere felice». Così dovrai aspettare a lungo.

Ora, questo non significa che non abbiamo il diritto di essere turbati, di soffrire. Non è questo che intendo. Abbiamo il diritto di soffrire, ma non abbiamo il diritto di non praticare, perché abbiamo preso l’impegno di praticare. Voi avete preso l’impegno di praticare di fronte al Sangha. Anch’io ho il diritto di soffrire, ma questo non mi dà il diritto di non praticare. E con la pratica possiamo cambiare tutto, possiamo liberarci, e soffrire meno o non soffrire affatto. Per cambiare, per essere felici, non dobbiamo aspettare che le persone intorno a noi smettano di fare quello che fanno.

I Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza sono meravigliosi, per me sono la  presentazione della pratica in termini concreti più bella che ci sia, sono come un’evoluzione della pratica. Sappiamo che i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza sono meravigliosi e, quando arriviamo ai Quattordici, vediamo che i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza sono diventati qualcosa di ancora più bello. Sono come la vegetazione all’inizio della primavera e la vegetazione all’inizio dell’estate, non sono due cose distinte e separate.

Ma c’è una differenza di crescita, e se si praticano bene i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza si arriva ai Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza. Anche se non hai ricevuto i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, se pratichi bene, la tua comprensione dei Cinque Addestramenti sarà una comprensione dei Quattordici.

Ho praticato, i miei amici hanno praticato, abbiamo praticato l’ascolto profondo. Abbiamo lavorato insieme ad amici che avevano un diverso bagaglio culturale. Ed è grazie a questo che siamo stati in grado di offrire l’insegnamento in una forma che può essere compresa e accettata dalla nostra generazione, specialmente dalle generazioni più giovani. E questo è il fiore e il frutto della nostra pratica collettiva. Quando ho portato questa pratica in Cina, tutti erano entusiasti. Hanno detto che la ricezione dell’insegnamento da parte dell’Occidente ha permesso di elaborare una nuova versione della pratica, e qui in Cina possiamo subito riconoscerla come autentica. Ricordo che a Xiamen, nel sud della Cina, ho offerto un ritiro a 600 monaci e monache e l’abate del tempio principale era un monaco della vecchia generazione, sull’ottantina, mentre nella giovane generazione di monaci e monache il più vecchio doveva avere 14 anni, perché a causa della Rivoluzione culturale non ci sono monaci e monache nelle generazioni di mezzo. E le vecchie generazioni, anche se non parlano la stessa lingua che parliamo noi, sono perfettamente capaci di riconoscere l’autenticità dell’insegnamento in questa lingua, e sono pronte a incoraggiare le nuove generazioni a praticare secondo questa versione del buddhismo, perché sanno che questo è il buddhismo del nostro tempo. E devo dire che gli amici che provengono da ambienti culturali occidentali ci hanno aiutato molto a diffondere questa forma di insegnamento e di pratica, non solo in Occidente, ma anche nella culla stessa del buddhismo, in India e in Cina, dove c’è molta riconoscenza. E il governo cinese ha da poco accolto l’idea di tradurre libri buddhisti pubblicati in Europa e in America, raccomandando il “buddhismo impegnato”.

Quando creiamo qualcosa, bisogna che quella creazione abbia come unico scopo il bene della pratica. Questo significa che ciò che creiamo dovrebbe solo unirci, dovrebbe portare più armonia, più comprensione. Creare qualcosa che può dividere non vale il nostro tempo, la nostra energia.

Come sappiamo, un insegnamento centrale del Buddha è quello del non-sé. Come dottrina, il non-sé non è molto utile. Molti di noi hanno scritto libri e fatto discorsi sul non-sé. Ma non sono in molti a saper applicare il meraviglioso insegnamento del non-sé alla vita quotidiana. Abbiamo visto scorrere fiumi d’inchiostro e molta saliva, ma l’insegnamento del non-sé rimane concettuale, teorico. Ne sono consapevole, ed è per questo che ci siamo sforzati di applicare l’insegnamento del non-sé alla vita quotidiana.

In questo viaggio mi accompagnano diversi monaci e monache. Pratichiamo il cosiddetto “secondo corpo”. Ognuno di noi ha un secondo corpo, il che significa che ha anche un terzo corpo, un quarto corpo, un quinto corpo, perché il suo corpo è ogni membro del Sangha. Ma dato che sappiamo di non poterci prendere cura di tutti i nostri corpi allo stesso tempo, ci viene chiesto di prenderci cura solo del nostro secondo corpo. Questa è la nostra pratica ogni volta che iniziamo un nuovo ritiro, un ritiro di tre mesi, un ritiro di 21 giorni, all’inizio di un viaggio o quando insegniamo o offriamo un ritiro. Questo vi dà un’idea di come pratichiamo tra di noi, il che non vuol dire limitarsi solo a parlare della pratica. Ci si siede in cerchio, si chiama il nome di qualcuno e quella persona dice «Come secondo corpo vorrei la tale Sorella o il tale Fratello» e quando l’altro sente il suo nome si alza e dice «Il mio secondo corpo sarà lui o lei» e alla fine ognuno di noi ha un secondo corpo. Se devi prendere l’autobus, sai che se il tuo secondo corpo non c’è, non sali sull’autobus. Devi assicurarti che ci sia anche il tuo secondo corpo, per salire sull’autobus insieme. Devi essere responsabile del tuo secondo corpo. Tu ti prendi cura di una sola persona e ciascuno ha una persona che si prende cura di lui. Devi essere responsabile della sicurezza dell’altro, della sua felicità, del suo livello di consapevolezza, e se l’altro si prende un raffreddore devi fare del tuo meglio per aiutarlo. Se hai difficoltà, puoi chiedere l’aiuto del tuo insegnante, delle sorelle o dei fratelli.

Così il gruppo di monaci e monache che viaggiano con me in questo momento pratica il secondo corpo, e i gruppi di laici e monaci che si trovano a Plum Village in questo momento praticano allo stesso modo. Praticando così, si vede che il benessere di chiunque è il proprio benessere. E si impara non dai libri ma dalla vita quotidiana, dalla pratica, e sperimentando direttamente la realtà del non-sé. La felicità non è una questione individuale. Se l’altro non è felice, non si può essere veramente felici, bisogna aiutarlo. Se un nuovo arrivato esprime il desiderio di diventare un membro permanente del Sangha o un laico di diventare monaco o monaca, deve comunicare la sua intenzione al Sangha, e il Sangha, come un corpo, deciderà in proposito. Sono molto felice di non essere io a dover prendere le decisioni. Se il Sangha si riunisce e ricorre all’occhio del Sangha per guardare in profondità, mi affido al Sangha. Così da tre o quattro anni è il Sangha a decidere se qualcuno può diventare un residente permanente o essere ordinato come monaco o monaca. Io non devo fare altro che affidarmi a questa decisione.

C’è un altro aspetto della pratica. Abbiamo sperimentato una combinazione tra la saggezza dell’anzianità e la nuova saggezza della democrazia, in modo che tutti nel Sangha abbiano l’opportunità di manifestare la loro aspirazione alla vita monastica. Anche chi è stato appena ordinato come novizio è pienamente accolto, e anche se la decisione viene presa da monaci e monache pienamente ordinati – è una tradizione che dura da 2.500 anni – i giovani novizi sono incoraggiati a raccontare la loro esperienza, perché la decisione riguarda anche loro e molto spesso c’è qualcosa da imparare. Sono nuovi alla pratica, quindi le loro esperienze non possono essere paragonate a quelle di chi ha la piena ordinazione da molti anni, ma hanno comunque l’opportunità e il diritto di dire cosa c’è nella loro mente e nel loro cuore, e nel prendere le loro decisioni le sorelle e i fratelli maggiori devono tenerne conto. Se i membri laici dell’Ordine possono essere accettati qui nel Green Mountain Dharma Center come residenti, sarà il Sangha a deciderlo, perché bisogna prendere rifugio nel Sangha e fidarsi dell’occhio del Sangha. Non bisogna fare affidamento sulla decisione di una sola persona, anche se quella persona è l’insegnante, e chi va a Plum Village se ne rende conto subito.

La nostra pratica è costruire il Sangha. L’essenza di un Sangha è l’armonia. Senza armonia non può esserci un Sangha, anche se ci sono molte persone brillanti. Armonia è la parola chiave. Lo scorso autunno, quando siamo arrivati per il ritiro, era così bello. Una sorella ha visto la bellezza della natura ed era così felice, così commossa, che ha detto a un’altra: «Oh, è così bello, vorrei esprimere la mia felicità. Sorella minore, permetti che ti abbracci?» E la sorella minore ha detto: «No, sorella maggiore, sono occupata, adesso devo prendermi cura di Thay, è appena arrivato, è stanco, quindi vai ad abbracciare un albero».

Invece di riposarmi, al mio arrivo ho passato un po’ di tempo a camminare tra gli alberi. Sono così belli. Mi sono avvicinato a un albero che aveva un ramo basso, alla mia altezza. Ho camminato fino a lì, era così bello. Non erano solo i colori, la sua bellezza stava anche in qualcos’altro. Avvicinandomi ho scoperto che ogni foglia aveva dei forellini, perché l’estate era avanzata e gli insetti dovevano aver mangiato tutte le foglie facendo quei buchetti. Così, con mia grande sorpresa, nessuna di quelle foglie era perfetta. Ma erano belle lo stesso, perché ogni foglia aveva il suo posto sul ramo. Non c’erano spinte, calci, risentimento, su quel ramo tra le foglie c’era una perfetta armonia. Ho scoperto che la vera bellezza di quel ramo stava nell’armonia tra le diverse foglie e il ramo stesso. Certo, quella bellezza era arricchita dai colori, ma credo che se non ci fosse stata l’armonia non avrebbe potuto esserci neppure una vera bellezza.

Ecco, questa è la mia idea di Sangha. Nessuno di noi, per essere felice, deve essere perfetto. Non c’è bisogno di essere perfetti, ma bisogna essere in armonia tra di noi, e per questo serve un po’ di allenamento, di pratica. Se c’è confusione, se c’è rabbia, se c’è gelosia, bisogna incontrarsi e praticare guardando in profondità: aiutarsi a vicenda, non combattere. Combattere non è praticare. Quando soffriamo, tendiamo a dare la colpa della nostra sofferenza a qualcun altro: «lui ha agito così», «lei ha agito così», «lui ha detto così», «lei ha detto così, ed è per questo che io soffro». Ma non diciamo mai «non ero abbastanza libero, ecco perché soffro». Sì, soffriamo perché non abbiamo libertà a sufficienza.

Se abbiamo libertà a sufficienza, allora abbiamo abbastanza compassione. Se l’altro soffre e dice e fa cose che non ci piacciono, è perché anche a lui mancano felicità e pace, e l’unica risposta giusta è essere compassionevoli. In questo senso la pratica deve essere libera. Guarda tuo fratello, guarda tua sorella, guarda il tuo insegnante: è libero, è libera? Possiamo imparare da lui, da lei? Perché mio fratello, mia sorella, il mio insegnante, ciascuno di noi ha le sue difficoltà. Per loro ci sono un sacco di cose che non vanno per il verso giusto, eppure sorridono lo stesso, sono lo stesso compassionevoli. Perché? Perché in loro c’è libertà, e anche noi dobbiamo imparare a praticare per avere libertà in noi stessi. Ancora una volta, non siamo dei santi. Ogni tanto abbiamo il diritto di soffrire, ma non abbiamo il diritto di non praticare.

Che cos’è il Green Mountain Dharma Center? È un mezzo che ci permette di riunirci come comunità e praticare. Se il Green Mountain non ci è d’aiuto su questo piano, non abbiamo bisogno del Green Mountain… Dobbiamo “lasciare andare la mucca”. Io sono pronto a lasciare andare qualsiasi mucca. Lo sono davvero. Non perché sono un eroe, ma perché sono libero. Non sono legato a nessuna mucca. Se qualcosa comincia a diventare una mucca, è una nostra responsabilità. Se questo avviene a causa della nostra mancanza di abilità, è perché abbiamo permesso che quel qualcosa diventasse la nostra mucca, e se soffriamo per questo, non vale la pena di tenercelo.

Nella mia vita l’ho fatto più volte, ho lasciato andare. Ho praticato così in Vietnam e ho praticato così a Plum Village, dicendo ai miei amici di Plum Village: «Anche se perdiamo Plum Village, possiamo essere felici lo stesso, perché ovunque andiamo abbiamo il Sangha, e il nostro Sangha è ovunque». Puoi essere in contatto con Plum Village ovunque tu sia.

Anni fa l’amministrazione locale ha chiuso il Lower Hamlet e c’erano amici che venivano da molti paesi e continuavano a respirare e a sorridere. Per farlo ci vuole un po’ di allenamento. Il problema non è là fuori, nella situazione in cui ti trovi, il problema è dentro.

I Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza sono meravigliosi. Se sappiamo farne la base della nostra pratica, possiamo trarne molta felicità. E sappiamo che in molti casi c’è anche chi non ha ricevuto i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza ma può essere davvero felice lo stesso. Come membri del  Sangha nucleo si può essere molto felici, ma si può essere molto felici anche senza essere membri del Sangha nucleo. Di solito ai miei novizi dico: «Non aspettare di diventare una monaca o un monaco pienamente ordinato per essere felice, puoi essere felice da subito come sorella o fratello minore. Conto su di te, sul nutrimento che mi offri giorno dopo giorno con la tua freschezza».

Domande frequenti

1. Che cosa simboleggia la giacca marrone? Quando indossarla? Il marrone è il colore della terra. La giacca marrone è il simbolo del nostro impegno a praticare per il bene di tutti gli esseri. La giacca marrone ci fa pensare a chi vive lavorando la terra: se ci identifichiamo con qualcuno, è con i contadini, non con i re e le corporazioni. Possiamo indossare la giacca marrone ogni volta che visitiamo un tempio o partecipiamo a una cerimonia (a una meditazione, al ricominciare daccapo, al toccare la terra, a cerimonie nuziali ecc.). Si può anche scegliere di non indossare la giacca marrone, per vari motivi: «La forma è vuoto e il vuoto è forma».

2. Siamo autorizzati a offrire insegnamenti, o è autorizzato a insegnare solo chi ha ricevuto la trasmissione della Lampada (Dharmacharya)? Thay ha insegnato che chi, grazie alla pratica della consapevolezza, ha imparato qualcosa di valore, ha il permesso di insegnare basandosi su quella profonda esperienza. Ha anche detto che la trasmissione della lampada non è un certificato di insegnamento, ma “un incoraggiamento a insegnare”. Dunque i membri della Comunità Estesa e della Comunità Nucleo dell’Ordine Tiep Hien sono invitati a insegnare basandosi sulle loro esperienze ricche e diverse.

3. Come intendere le “giornate in consapevolezza”, soprattutto riguardo all’impegno a praticarne sessanta all’anno? Una giornata in consapevolezza è davvero un dono per noi quando possiamo concederci del tempo. Piuttosto che essere dogmatici sulla definizione di che cos’è una giornata in consapevolezza, potremmo seguire l’insegnamento del Buddha sulla Stella Polare. Il Buddha ci ha insegnato che possiamo usare la Stella Polare per trovare il Nord. Non arriveremo mai alla Stella Polare, ma di certo possiamo prendere l’impegno di seguire questa direzione. In questo spirito,  a volte potremmo scoprire che le nostre giornate in consapevolezza possono anche essere una giornata passata con la famiglia al parco, o dedicata a prendersi cura di un membro della famiglia che è malato. Prendiamo l’impegno profondo di praticare 60 giornate in consapevolezza ogni anno, ma al contempo anche di «non idolatrare né ritenere vincolante alcuna dottrina, teoria o ideologia, neppure quelle buddhiste».

4. Che rapporto abbiamo con i sacerdoti buddhisti e non buddhisti (e noi stessi siamo dei “sacerdoti”?)? I membri dell’Ordine possono celebrare matrimoni? Tecnicamente, chi fa parte dell’Ordine Tiep Hien, cioè chiunque abbia formalmente ricevuto i Quattordici Addestramenti alla consapevolezza e sia ordinato membro della Comunità nucleo, costituisce il clero laico nella nostra tradizione. Alcuni membri della Comunità nucleo riceveranno la trasmissione della lampada, e sono a loro volta autorizzati a trasmettere gli Addestramenti. I membri della Comunità nucleo si possono paragonare in tutto e per tutto ai diaconi di alcune comunità protestanti e/o a sorelle e fratelli laici di certi ordini religiosi cattolici. I membri dell’Ordine possono senz’altro celebrare cerimonie di matrimonio/impegno, tuttavia, ogni Stato ha norme sue proprie che stabiliscono il modo in cui un “religioso” può celebrare matrimoni ratificati dallo Stato.

5. Qual è il nostro rapporto con i fratelli e le sorelle monastici dell’Ordine?

[trascrizione mancante]

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19 giugno 2000, Plum Village, Ritiro “Eyes of the Buddha”

Penso all’Ordine Tiep Hien senza leader. Come un alveare: senza leader. È possibile. Non c’è un anziano. Non abbiamo bisogno di un anziano per dare ordini. Possiamo operare come i neuroni nel cervello o le formiche nel formicaio. È assolutamente possibile, a condizione di avere un’ottima rete di comunicazione. Se abbiamo una buona comunicazione, tanto basta. Le api hanno il loro modo di comunicare. Anche le formiche. Noi abbiamo molte più infrastrutture. Se c’è comunicazione, allora un qualunque gruppo di fratelli o sorelle può dare avvio a un progetto. E tutti lo vedranno e tutti verranno ad aiutarli, proprio come fanno le termiti: quando vedono che sta succedendo qualcosa si animano e comunicano di più, raggiungono le altre e le aiutano a costruire nuove colonie. È possibile. È una prospettiva davvero entusiasmante. In passato avevamo una leadership elettiva, ma credo che non ce ne sia più bisogno. Abbiamo bisogno di una sorta di comitato di coordinamento per far circolare le informazioni, avanti e indietro. Così ciascun membro dell’Ordine può trarre beneficio dalla saggezza di tutti gli altri. E tutti possono imparare dagli errori di tutti. Così tutto può tornare utile.

Quindi, la parola chiave è “comunicazione”. L’e-mail è uno strumento utile. Penso che se un membro dell’Ordine vive una vita di bellezza, se la sua pratica degli addestramenti è compiuta, se riesce a creare felicità attraverso la costruzione di un bel Sangha, anche questa è comunicazione. Perché ben presto gli altri se ne accorgeranno. La comunicazione raggiungerà grandi distanze. Molto velocemente. Forse non ci sarà neppure bisogno di un indirizzo e-mail. Perché non puoi nascondere niente a nessuno. Che sia positivo o negativo. Questo è il vero senso della comunità, del Sangha. Se sei felice, gli altri sanno che sei felice. Se non lo sei, sanno che non lo sei. Il nostro principio è che quando sei felice hai qualcosa da condividere. Ma se non sei felice, non puoi condividere granché.

Una ventina d’anni fa una persona venuta dall’Inghilterra ha fatto una domanda a Thay: «Thay, quando pensi che una persona sia pronta per diventare un insegnante?» Era un membro di Western Friends of the Buddhist Order. Thay ha risposto: «Beh, quando è felice». Quella persona è rimasta piuttosto sorpresa. Pensava che Thay avrebbe detto: «Devi farti cinque anni di formazione e prenderti un diploma», e altre cose del genere, ma Thay ha detto solo: «Quando ti senti felice».

Organizzarsi non è la cosa più importante. Il Vaticano è molto ben organizzato. Troppo organizzato. C’è molta sofferenza. Penso che il buddhismo sia la religione meno organizzata del mondo. Ecco perché abbiamo tanta libertà. Nessuno ci può scomunicare. C’è solo una persona che può scomunicarti, cioè tu stesso. Allora, impariamo a vedere le cose in questa prospettiva. Organizzarsi non è la cosa più importante. Esserci, praticare mantenendosi aperti alla comunicazione e facendo in modo che fluisca, che rimanga possibile, invece, è molto importante. Penso che possiamo imparare molto dalle api. Le api possono danzare. Possiamo danzare anche noi. Comunicare. Chiunque può danzare per noi.

Potete organizzare un ritiro di ventuno giorni in America senza la presenza fisica di Thay? Perché no? Un ritiro di ventuno giorni è molto più profondo. È molto difficile proporre un ritiro di cinque o sei giorni, perché devi pur sempre offrire gli insegnamenti di base e non hai il tempo di andare più in profondità, in altre direzioni. Ma un ritiro di ventuno giorni è molto bello. Hai abbastanza spazio per scavare più a fondo. Penso che prima possibile dovremo organizzare un ritiro per gli scienziati. E dobbiamo riprendere i ritiri per i bambini, per gli insegnanti, per i genitori, per i politici.

Potete organizzare un ritiro di ventuno giorni anche in Australia.

L’ultimo giorno del nostro ritiro di ventuno giorni canteremo l’invocazione di Avalokita per esprimere la nostra gratitudine. Tutti i membri dell’Ordine dell’Interessere si riuniscano per il canto. Oggi dobbiamo provare un po’.

[Segue mezz’ora di prove]

In Germania c’è il centro Intersein, un posto molto bello a poco più di due ore da Praga e Monaco di Baviera. Tanta aria fresca, boschi, sentieri per la meditazione a piedi. Molte camere per residenti permanenti e ospiti. In questo momento la comunità residente è di cinque membri. Il gruppo ha raggiunto la dimensione minima per una comunità. I nostri amici Karl e Helga sono molto attenti ad accettare nuovi membri. È facilissimo accettare un nuovo membro, ma non è altrettanto facile chiedergli di andarsene. Perché quando la pratica non è abbastanza buona, la qualità della comunità diminuisce. Ecco perché è molto importante che il Sangha abbia abbastanza tempo a disposizione per stabilire se un membro può contribuire alla qualità essenziale della pratica, perché il Sangha è un rifugio per molte persone. Se non stiamo attenti, ci saranno molte difficoltà. Quindi, all’inizio dovremmo invitare solo chi è già capace di praticare e vivere una vita in comune in armonia. Chi vuole diventare un membro permanente del Sangha dovrebbe dare al Sangha il tempo di osservare e dire di sì. A volte basta solo un mese o due. A volte per ottenere un sì ci vogliono sei mesi di prova. A volte di più. Questa è la nostra esperienza.

E a volte non abbiamo neppure bisogno che qualcuno richieda lo status di residente permanente, perché vediamo chiaramente che se una certa persona diventa un membro permanente del Sangha questo costituisce un vantaggio, quindi siamo noi a invitarla. Per favore, lascia andare la tua mucca e vieni a stare con noi. Se hai un Sangha felice, puoi dare un grande aiuto. Hai qualcosa in cui prendere rifugio per proteggerti e anche per rendere un servizio a tante persone.

In Germania si presenta un’opportunità con la giornata di consapevolezza che avremo alla fine del mese. Alla giornata di consapevolezza verranno 600 persone. Questa è un’opportunità per presentare il centro. Per i partecipanti sarà un’opportunità per vedere il centro e rendersi conto che questo è un luogo di pratica e non un posto dove si vendono ritiri. Quello che cerchiamo di evitare è che sia un posto che vende ritiri, gestito da una coppia. Una vita del genere non sarebbe una vita di comunità e quella coppia non avrebbe la possibilità di praticare. La vera pratica non è quella di un ritiro. Quando ti occupi di un ritiro, e vuoi che quel ritiro sia un successo, è come un business. Il business dei ritiri. Solo vivendo insieme secondo le sei insiemità, le sei concordie, possiamo raggiungere la trasformazione. È un problema diffuso. Quando ci riuniamo in un gruppo come questo, incontreremo delle difficoltà perché non siamo abituati a vivere in comunità. Così ci scontriamo tra noi. Ci facciamo soffrire a vicenda. Ma questo è l’unico modo per darci tutti una lucidata. E all’improvviso ci ritroviamo belli lisci e lucenti. È come quando dopo un pasto ci sono un mucchio di bacchette da lavare. Bisogna stringere insieme tutte quante le bacchette, e così ogni bacchetta verrà fuori pulita e splendente. Questa è la vita del Sangha.

All’inizio ti chiedi: perché sono venuto qui? A casa avevo tante comodità. Ti chiedi chi te l’ha fatto fare e vuoi tornare indietro. Ma hai preso un impegno. Quello che stai cercando non è conforto, è trasformazione. Quindi vai avanti e accetti il Sangha. Allora in te si sviluppa la fratellanza e la sorellanza, il che è molto gratificante. E quando c’è fratellanza, quando c’è sorellanza, quando c’è armonia, diventi un rifugio per tante persone. Ora stai facendo il lavoro del Buddha. Per questo motivo è l’Ordine dell’Interessere a doversi assumere la responsabilità di costruire i primi Sangha laici, le prime comunità laiche. E Thay ha delle idee da proporre.

Chi si trova in Nord America può fare qualche ricerca e osservare i centri di pratica fuori dall’America. Sappiamo che in passato c’erano centri come il Rochester Zen Center, il San Francisco Zen Center, il Los Angeles Zen Center, il Tibetan Center in Colorado. Bisognerebbe fare una mappatura per esaminare i punti di forza e di debolezza di ciascun centro. Per imparare.

E poi c’è molto da imparare dalla tradizione monastica. Duemilacinquecento anni di esperienza. Potremmo cominciare con un sangha di cinque persone realmente impegnate nella costruzione del sangha. Questo è il vero lavoro, la vera pratica. La qualità della pratica in un ritiro dipende dalla qualità della vita del Sangha. Perché è questa la vera pratica, una pratica ventiquattr’ore su ventiquattro. E quando vengono degli ospiti a trovarci, ci vedono vivere in armonia e felicità. Vedono il nostro modo di relazionarci, di prenderci cura l’uno dell’altro, lo sanno, e provano fiducia. Sappiamo bene che in Occidente le origini del buddhismo sono legate a un buddhismo laico. Molti pensano di non aver bisogno dei monaci. La Insight Meditation Society e altri pensano che può esserci una pratica interamente laica. Ma molti di noi hanno esperienza del fatto che anche le comunità monastiche sono molto importanti. Servono come base, come radici. E anche se i sangha laici possono essere autonomi, indipendenti, hanno comunque da relazionarsi con il sangha monastico. Perché la tradizione è sempre stata questa. Allo stesso modo, l’ordine delle bikshuni fa sempre affidamento sull’ordine dei bhikshu. Le comunità laiche dovrebbero affidarsi agli ordini delle bhikshuni [monaca pienamente ordinata] e dei bhikshu. Non c’è bisogno di molte comunità monastiche, ma c’è bisogno di molte comunità laiche per offrire a tanti l’opportunità di vedere il Dharma vivente. Sì, ci sono un sacco di libri, registrazioni e conferenze, ma bisogna vedere il Dharma vivente. Quindi, un pizzico di Sangha laico è qualcosa che possiamo offrire alla società. Perché c’è davvero un vuoto. Penso che l’iniziativa spetti ai membri dell’Ordine dell’Interessere. Studiamo e osserviamo le comunità che già esistono per vedere cosa possiamo imparare da loro e cosa possiamo evitare. Le nostre comunità laiche possono sempre accogliere i monaci in visita. Si potrebbe prevedere un posto per gli ospiti monastici, come in una comunità monastica c’è un posto per i laici che vengono a trovarci. Così manteniamo il contatto. È una cosa molto importante da approfondire. La tradizione monastica tradotta in esperienza laica, in cultura laica. È un aspetto del buddhismo impegnato.

Discorso di Dharma offerto da Thay ai membri dell’Ordine dell’Interessere, Green Mountain Dharma Center, Vermont, 17 maggio 2001

Sessione di domande e risposte

Le domande che fate possono portare giovamento a molti, perché molti possono avere le stesse domande. Quindi, fate le vostre domande migliori, così avremo le risposte migliori. Il mio suggerimento è che chi fa una domanda venga qui e parli rivolto al Sangha, in modo che ognuno di noi possa vederlo. Diverse persone possono venire tutte insieme e parlare a turno.

Thay, molti di noi sono stati ispirati dalla storia della formazione dell’Ordine, quando tu, come monaco, ti sei unito a un piccolo gruppo di laici, uomini e donne. Avete praticato insieme e vi siete impegnati per la comunità in un momento di grande dubbio e caos. Vorrei chiedere, non solo per me stesso ma penso anche per gli altri, qual era la tua ispirazione, qual era la tua bodhicitta e la tua motivazione in quel momento?

Caro Thay, è bello essere qui con te. Mi chiedo se hai ricevuto una copia del nuovo disco di canti Basket of Plums. Non è una domanda, ma ho nel cuore queste canzoni da molto tempo. Spero che ti piacciano. Grazie per il dono di poter esprimere la pratica nel canto e nella poesia. Grazie.

Caro Thay, avevo una domanda prima di capire che per farla dovevo venire qui davanti davanti a tutti. Non posso dire di essere molto vecchio, ma nel corso di quest’anno ho incontrato la morte, la vecchiaia e la malattia in molte situazioni diverse. Conosco la storia di come tu e Sr. Chan Khong avete assistito Alfred Hassler in punto di morte e mi chiedevo se ci puoi aiutare dicendoci qualcosa sugli strumenti che abbiamo a disposizione per dare risposta alle sofferenze altrui di fronte alla comune esperienza della vecchiaia, col declino che a volte l’accompagna, della malattia e della morte.

Caro Thay, caro sangha. Quest’anno ho fatto un’esperienza davvero terribile. Torna periodicamente. Mi sono dovuto operare e prendere la morfina, e poi non sono stato svezzato correttamente dalla morfina, col risultato di andare in astinenza da farmaci. Ho provato un senso di sventura imminente che non avevo mai immaginato. Non avevo mai immaginato che le persone tossicodipendenti dovessero affrontare esperienze simili. È una cosa che ritorna periodicamente, e sento che non c’era via d’uscita. Cioè, è chiaro che non c’è via d’uscita, ma davvero non ce n’era da nessuna parte. È stata l’esperienza più terrificante della mia vita. È andata avanti molto intensamente per tre giorni e poi a singhiozzo. Ma avevo molti cari amici e insegnanti che venivano a trovarmi e mi dicevano: «Non lasciarti trascinare, respira» e così via. E l’unica cosa che avevo, e non voglio farla sembrare qualcosa di poco conto, e forse è proprio questo il punto, era il mio Sangha. C’è chi si è coricato accanto a me, mi ha parlato e ha respirato insieme a me. Il terrore era ancora lì e ogni tanto ritorna, come ho detto. E ho pensato «La mia pratica lascia molto a desiderare se non posso affrontare tutto questo». Davvero, ho pensato «Sono proprio un fifone». Così ne ho parlato con un insegnante che mi ha detto: «Rivolgi la domanda a Thay, lui ti aiuterà ad andare un po’ più a fondo». Ma penso che ci sia spazio per una certa dose di vergogna per non avere avuto più successo con quel demone delle tenebre. Quindi la mia gratitudine andrà a tutti voi e a te, caro Thay, se vorrete darmi qualche indicazione. Grazie.

Caro Thay e caro sangha. Ho una domanda sulle difficoltà nel matrimonio. Negli Stati Uniti di solito per affrontare la questione andiamo in terapia. E spesso sembra che gran parte della terapia, in nome della scoperta della verità, consista nel dare la colpa all’altro, e in una certa misura anche litigare. Quindi vorrei un aiuto riguardo a come la terapia e la pratica vanno di pari passo nell’aiutare una coppia in difficoltà. Grazie.

Quando guardo questa stanza piena di amici e piena di gioia, oggi mi rendo conto che noi siamo sempre più ingrigiti, mentre i monaci sono sempre più giovani. È una domanda che viene fuori anche nel nostro sangha al MPC. Come possiamo diffondere questa pratica in modo da avere  tra i Tiep Hien giacche marroni più giovani, come fare ad allargare il campo di questa pratica per farla diventare forse più una pratica di famiglia, una pratica che possiamo seguire in quella fase della vita che è piena di figli piccoli da tirare su e di cose così. Grazie mille.

La domanda di Barbara ispira la mia come madre di due figli piccoli. Trovo molto difficile integrare la pratica nella mia vita quotidiana, e ho nostalgia del tempo in cui, prima dei bambini, ero molto presente. Il punto non sono i miei figli, sono meravigliosi e sono la pratica. È la sfida della vita frenetica, delle relazioni, del lavoro. Ho il dono di un sangha meraviglioso. Ma spesso mi sento molto solo rispetto a come fare ad abbracciarvi tutti nella sacralità del quotidiano.

Caro Thay, caro sangha. Ho diversi amici nella pratica che sono piuttosto delusi perché non hanno a portata di mano insegnanti di un certo status, altamente qualificati, ordinati e riconosciuti, ai quali rivolgere le loro domande. Trovo che molti hanno delle aspettative sul rapporto tra allievo e insegnante come parte essenziale della pratica e per questo si sono allontanati da questa pratica e da questa tradizione. Penso che il sangha possa fare un po’ di luce su questa esperienza e mi farebbe piacere ascoltare qualcosa in proposito da parte tua. Grazie.

Thay: La prossima occasione per fare domande è l’anno venturo!

Caro Thay, forse l’anno prossimo non sarò ancora in vita, quindi ho pensato di intervenire anche se non ho una ragione particolare. Stamattina hai parlato di volizione. E per molto tempo c’è stata una domanda nel mio cuore: a cosa dovrei dedicare il mio tempo e la mia energia nella vita? Nella mia mente c’è come una separazione tra quello che faccio concretamente per lavoro e la mia pratica. Come si fa a trovare la volizione capace di fare da guida, di nutrire la pratica e portare davvero pienezza nella pratica, in modo che non ci sia più separazione tra il lavoro e la vita?

Mi ha spaventato sentirti dire che questa è l’ultima occasione per fare domande. Posso fare la mia in francese? È molto semplice. Un bodhisattva ha dei limiti? Tutti i nostri canti ci portano alla grande aspirazione del bodhisattva. Ma, come dice il mio caro insegnante e maestro Chan Huy, devo stare anche attento ai miei limiti, in ogni occasione. Come conciliare i nostri limiti e il nostro desiderio di migliorarci e fare sempre un po’ meglio? (Thay: Il bodhisattva ha dei limiti? E come conciliare i propri limiti col desiderio di servire di più, su larga scala?)

Caro Thay, sono stato molto attivo in politica nella mia comunità e mi sento chiamato in causa dai cartoncini con su scritto “Sei sicuro?”, perché non sono mai sicuro. Quando mi trovo di fronte a quella che mi appare come un’ingiustizia, cerco di agire in base a ciò che in quel momento, al meglio delle mie conoscenze, mi sembra vero, provando a lasciare spazio per poter cambiare punto di vista. Ma non so darmi pace di fronte all’inazione e all’immobilismo dovuti a una mancanza di conoscenza. Quindi mi chiedevo se puoi portare un po’ di chiarezza su questo punto o se si tratta solo di praticare e agire in modo da generare meno dolore e sofferenza possibile, cioè di portare un cambiamento sociale generando meno dolore e sofferenza possibile per gli altri e per me stesso.

Caro maestro, all’inizio mi sono avvicinato al sangha in parte perché lo sentivo molto puro, semplice, piccolo, intimo, legato alla pratica individuale e in un sangha di dimensioni contenute. E a mano a mano che cresce la chiarezza nella mia vita, diventa sempre più chiaro che anche il mio lavoro è piccolo e individuale, e allora guardo con apprensione alla nostra crescita e non capisco come potremo rimanere forti diventando qualcosa di più grande. Ti chiedo una guida per potermi relazionare a questa crescita e per saperne di più su come pensi alla vita del sangha dopo la tua morte.

Caro Thay, caro Sangha, questo è stato un anno personalmente molto impegnativo per me e ho dovuto affrontare grandi sfide riguardo alla mia salute e al lavoro. In questa fase difficile ho trovato un sostegno straordinario da parte del sangha, cosa per cui sono molto grato, ma a volte ho provato anche un senso di smarrimento, perché sentivo di non essere all’altezza di questa pratica che nell’arco degli ultimi dodici anni aveva davvero cambiato la mia vita in modo radicale. E speravo che potessi darci qualche suggerimento per quei momenti in cui, rispetto alla pratica, ci sentiamo un po’ smarriti.

Thay: Ci alziamo e facciamo qualche movimento in consapevolezza?

Caro Sangha, oggi è il 17 maggio 2001, ci troviamo al Green Mountain Dharma Center, nel Vermont. Ora sono le 4:53 del pomeriggio.

Quando mi trovavo ad Amsterdam, all’inizio dell’anno, una giornalista mi ha posto questa domanda: «Thay, ora hai settantacinque anni, cos’altro vorresti fare prima di morire? C’è qualche altro obiettivo che vorresti davvero raggiungere prima di morire?» Ho avuto difficoltà a risponderle perché non era una praticante. Ora che siete voi a farmi la stessa domanda, sarà più facile.

È una domanda a cui si può rispondere in vari modi. La mia risposta diretta, l’elemento più diretto della mia risposta, è: «No, non c’è niente di speciale che voglio fare prima di morire». Quello che mi piace fare lo faccio fin dai tempi della mia infanzia. E dopo la mia cosiddetta morte, continuerò a farlo. Per chi non è addentro, per chi non è un praticante, servono un po’ di spiegazioni. Perché essere qualcosa e fare qualcosa possono anche non essere due cose distinte e separate. Essere madre e fare il lavoro di una madre: c’è differenza tra le due? So di coppie in cui entrambi i genitori vanno al lavoro e lasciano il loro bambino molto piccolo al nido. Lo stipendio del marito sarebbe sufficiente per tutti, eppure anche la madre vuole andare a lavorare. Ci poniamo la domanda: «Perché?» Essere madre è un vero lavoro, un lavoro a tempo pieno. E crescere tuo figlio è la cosa più bella che si possa fare. Perché crescere tuo figlio significa costruire il tuo futuro, assicurandoti una buona continuazione di te. Forse è perché vuoi guidare un’auto più costosa, forse è perché vuoi vivere in una casa più grande, forse è perché vuoi comprare più cose, e allora devi accettare un lavoro e lasciare il tuo bambino al nido. Ma le statistiche mostrano che i bambini che stanno più a lungo al nido hanno meno possibilità di essere felici, di integrarsi nella vita familiare, nella vita sociale. Quindi, rimani a casa e diventa madre, e sarai una moglie migliore, una partner migliore. Anche se devi guidare un’auto piccola, anche se devi vivere in una casa piccola , la qualità della tua vita e la qualità della vita di tuo figlio saranno migliori. Fai la felicità del tuo bambino, fai la felicità di tuo marito e questo significa che fai anche la tua stessa felicità perché solo quando tuo marito e tuo figlio sono felici puoi essere veramente felice, la felicità non è una questione individuale.

Come madre vuoi trasmettere al tuo bambino tutto ciò che è prezioso in te. Hai ricevuto molte cose meravigliose dai tuoi antenati, dai tuoi genitori. Hai imparato tanto dalla tua vita, dalla tua sofferenza, dalla tua felicità e vorresti trasmettere tutte queste cose a tuo figlio. Sarebbe frustrante se non riuscissi a comunicare con tuo figlio e quindi non potessi trasmettergli le cose migliori che hai. Forse non hai trasmesso a tuo figlio le cose migliori che hai. L’energia della cattiva abitudine, la tendenza ad arrabbiarsi subito, sono già lì in ogni cellula del suo corpo, nel patrimonio genetico. Non sei capace di trasmettere a tuo figlio le cose migliori che hai perché tra te e tuo figlio la comunicazione non è buona. E basta fare un confronto con una casa più grande o una macchina più bella per vedere che cos’è più importante.

Io non ho figli biologici, ma ho molti figli spirituali, sia monastici che laici. E vorrei dare loro il meglio di me stesso. So che tutti non vedono l’ora di ricevere la trasmissione, ma non tutti ne sono in grado, perché sul percorso di trasmissione ci sono dei blocchi. Chi trasmette fa sempre del suo meglio, ma il destinatario della trasmissione può essere bloccato, può non avere la possibilità di ricevere. La pioggia non discrimina, ma se il pezzo di terra è coperto da un foglio di nylon, l’acqua non riesce a penetrare nel terreno e non può aiutare i semi che si trovano in profondità a germogliare. Abbiamo imparato attraverso le parole del Buddha che l’apice della carriera di un bodhisattva è la comprensione e l’amore, e la mia carriera è quella della comprensione, è la carriera dell’amore. Non è costruire un tempio, costruire un’organizzazione, costruire una chiesa, non è accumulare potere, ricchezza, cercare ammirazione. Se dobbiamo organizzare qualcosa, il nostro fine non è l’organizzazione, ma coltivare la nostra comprensione e il nostro amore. Quando l’organizzazione diventa un ostacolo alla pratica della comprensione e dell’amore, dobbiamo buttarla via subito, perché è un ostacolo.

Ho scritto tre volumi sulla storia del Buddhismo in Vietnam. In origine non sono uno storico. Il fatto è che quando sono diventato un esule cercavo qualcosa da fare e qualcosa da essere, e una delle cose che volevo fare era insegnare al dipartimento di filologia e storia dell’Università di Parigi. Ho tenuto delle conferenze sulla storia del Buddhismo e per me è stata un’occasione per approfondire la storia del Buddhismo in Vietnam. Così ho fatto diverse scoperte, e questo mi ha portato a scrivere il primo volume, poi il secondo volume e il terzo volume. Adesso sta vendendo bene in Vietnam, pubblicato sotto pseudonimo perché in Vietnam il mio nome è stato messo al bando. Ma c’è un quarto volume da scrivere e io sono uno di quelli che hanno vissuto quel periodo storico, ho i materiali di prima mano, l’esperienza diretta di quel periodo di storia del buddhismo in Vietnam, dal 1963 al 2000. Anche a Plum Village abbiamo un sacco di documenti, e sono più che sufficienti per il libro. Ma da anni e anni non ho avuto nessuna possibilità di sedermi e scriverlo. Molti mi esortano, perché sanno che se non lo faccio la storia verrà distorta. Ma guardandomi intorno vedo che ci sono molte cose più importanti da fare che mettermi seduto a scrivere un libro di storia, anche se a quanto pare sono la persona più indicata per farlo come si deve. Perché i miei primi tre volumi sono stati accolti molto bene in Vietnam, anche dai leader comunisti.

Quando osservo i monaci e i laici che vengono qui a imparare e praticare, vedo che è quella la cosa che devo fare ogni giorno. Devo prendermi cura del mio bambino. Non posso permettermi di fare altre cose. E prendermi cura del mio bambino significa che mi prendo cura di me stesso. E la mia pratica è quella di vedere me stesso nel mio bambino. Questo può contribuire a spiegare la seconda parte della risposta: “Non morirò mai, non morirò”. Per questo ho detto: “Continuerò dopo la mia morte”. Significa che non morirò. Perché tutti voi continuerete, sia che siate stati ordinati da me come monaci o come membri dell’Ordine Tiep Hien o come upasaka o upasika [laico o laica]. E c’è di più. Perché ci sono molti, molti altri che non hanno ricevuto nessuna ordinazione, che non mi hanno mai incontrato eppure sono praticanti eccellenti. Molti di loro non sono buddhisti.

Non so quante volte avete letto il mio libro Il miracolo della presenza mentale. Ma conosco un imprenditore. La sua azienda ha quattrocentomila operai, e ha letto il mio libro Il miracolo della presenza mentale trenta volte. È giovane. So che ce ne sono molti come lui,  anche se non li conosco di persona. Ma posso vedermi in loro perché sono vere e proprie continuazioni. Hanno usato i miei libri, i miei insegnamenti per trasformare la loro vita e fare la felicità delle persone che li circondano, non solo nella loro famiglia ma anche nella società e nelle loro aziende. Alcuni sono in prigione, altri in convento. E posso vedermi ovunque nelle prigioni e nei conventi. Per questo posso confermare che non morirò. Quindi la domanda “Thay, cosa vorresti fare prima di morire?” non è pertinente. Non c’è niente di speciale, ho sempre fatto quello che mi piace fare, sono sempre stato quello che voglio essere.

Se uso la parola “madre” è perché amo questa immagine, questa espressione. Una madre ha l’amorevolezza, il desiderio di nutrire, di guarire, di proteggere, di continuare. Forse qualcuno non sente che sto facendo del mio meglio, che sto dando il meglio per rendere possibile la trasmissione. Non è perché non sto facendo del mio meglio o non sto dando il meglio, ma perché c’è qualche ostacolo sulla via. Non lo senti. A volte ci vogliono cinque o dieci anni prima di accorgersi di questo amore, di questa disponibilità a trasmettere. Perché è questa la ragione, la motivazione più profonda. Non mi preoccupo di quello che accadrà all’organizzazione dopo la mia morte, per niente, neppure un po’. Mi sta a cuore quello che sta succedendo ora, se i miei discepoli, se i miei amici praticano bene oppure no, se soffrono meno oppure no, se sono capaci di aiutare, di mettersi a disposizione degli altri oppure no. È questo che mi sta a cuore, oggi. Ma non è una preoccupazione, è solo quello a cui faccio attenzione, quello che mi sta a cuore. È una cosa che aiuta a essere più vivi, più vigili.

Quando cammino, cammino in modo da non tradire il mio bambino. So che ogni mio passo è il fondamento del mio amore e della mia fiducia in voi. Non voglio tradire il mio bambino. Che voi ci siate o no, io cammino allo stesso modo, perché nella mia visione voi siete in ogni cellula del mio corpo, mi avete nutrito, siete la mia ragion d’essere, e io vi dichiaro il mio amore a ogni mio passo, a ogni mio respiro. Per essere degno della vostra fiducia, per essere degno del vostro amore, pratico respirando in consapevolezza, camminando in consapevolezza, pratico la libertà, la pace, la contentezza. Altrimenti, nulla potrà avere un senso. Non mi interessa costruire un grande tempio, una grande organizzazione, farmi un nome, una reputazione o cose del genere. Perché la mia pratica è l’amore, è la pratica dell’amore. Ogni volta che la vostra pratica è tornare a casa in voi stessi, ogni volta che praticando tornate nella vostra vera casa, dove potete incontrare i vostri antenati di sangue e i vostri antenati spirituali, quando tornate nella vostra vera casa e incontrate figli e nipoti, perché i figli e i nipoti sono già lì dentro di voi, voi corrispondete il mio amore. E non c’è bisogno di affrettarsi, perché per tornare a casa basta un solo passo. E se fate quel passo, corrispondete il mio amore nel profondo. Non chiedo nient’altro che questo. Perché con ogni passo fatto in questo modo date una possibilità alla pace che è in voi, date una possibilità alla vita, sapete vivere profondamente ogni momento della vita, e questo è il fondamento di ogni azione, è ciò che rende possibile il futuro, che crea spazio per i nostri figli e per i figli dei nostri figli.

Che cosa significa far parte dell’Ordine dell’Interessere? Far parte dell’Ordine dell’Interessere significa avere l’opportunità di praticare in questo modo: tornare a casa dagli antenati, dai figli, tornare alla vera pace e alla compassione. È come quando ti iscrivi all’università e ricevi una tessera dello studente che ti permette di entrare in biblioteca, nelle aule, di contattare gli insegnanti e così via. Sarebbe buffo mostrare la tessera dello studente e dire: “Sono uno studente di quella tale famosa università”. Non significa niente. Significa solo che hai l’opportunità di studiare lì. Far parte dell’Ordine dell’Interessere è lo stesso. Hai l’opportunità di accedere a insegnanti, sangha, metodi di pratica. E se non ne trai profitto al meglio, a che ti serve l’ordinazione? I Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza devono essere applicati nella vita quotidiana. E se ancora trovi che la pratica non può essere integrata nella tua vita quotidiana, beh, allora nella tua pratica c’è qualcosa che non va. I Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza sono un’espressione molto concreta del buddhismo impegnato. L’ascolto compassionevole, la parola amorevole fanno parte integrante di questo insegnamento e di questa pratica. Se pratichi l’ascolto profondo, l’ascolto compassionevole e la parola amorevole, dovresti essere in grado di comunicare, di ripristinare la comunicazione, di farla fluire di nuovo, di ridurre il livello di sofferenza, di creare sorrisi e contentezza. Sia in famiglia sia sul lavoro, è una pratica possibile. Il presidente di una grande azienda americana mi ha detto di essere molto orgoglioso di avere più di cinquanta quadri molto dinamici, che lavorano con passione per l’azienda. Ma dopo aver sentito un discorso di Dharma in cui parlavo della famiglia come base operativa, dicendo che “la rovina di una nazione inizia nella famiglia del suo popolo”, che se la famiglia è divisa, se in famiglia la comunicazione è impossibile allora qualunque cosa tu faccia non porterà da nessuna parte, mi ha confessato che più di una trentina di quei quadri sono divorziati e hanno sofferto profondamente per via delle loro relazioni personali.

Un membro dell’Ordine dell’Interessere dovrebbe essere un bodhisattva, una persona animata dall’energia dell’amore, disposta a fare qualcosa per il mondo, a diminuire la sofferenza, a creare più opportunità di comunicazione, di riconciliazione, di comprensione, di amore, di pace. Sì. Se ti senti motivato da questo profondo desiderio di servire, di aiutare, sei già un bodhisattva. Un bodhisattva può avere ancora della sofferenza dentro di sé. Ma grazie alla sua pratica ogni giorno diventa un bodhisattva sempre più grande, perché sa riconoscere, abbracciare e trasformare la sofferenza dentro di sé. Ma se trascura questa pratica fondamentale e si lascia prendere dalle cose da organizzare e dal lavoro, allora non sta facendo altro che rifugiarsi nel lavoro, senza affrontare il suo vero problema, che è il blocco di sofferenza, di disperazione, di rabbia, di violenza che ha dentro di sé.

Ho visto dei bodhisattva molto giovani, a volte di soli dodici o quattordici anni, dei praticanti felici. E questi piccoli bodhisattva non hanno bisogno di un’ordinazione, non hanno bisogno di un’ordinazione completa, non hanno bisogno di avere il titolo di insegnante di Dharma, eppure rendono felice chi li circonda ogni giorno. Non si preoccupano del futuro, non si preoccupano del passato, amano profondamente il sangha e la pratica del qui e ora. Sono fiori che sbocciano nel sangha. Forse non lo sanno, ma sono dei grandi bodhisattva in mezzo a noi. E noi facciamo tesoro della loro presenza. Ci sono persone che hanno ricevuto gli addestramenti da anni e anni, anche venti o trent’anni, ma ancora non hanno la capacità di vivere felici e hanno difficoltà a comunicare liberamente con gli altri. La conoscenza del buddhismo non è molto utile. Ci sono persino studiosi del buddhismo che hanno una capacità molto limitata di mettersi al servizio degli altri. C’era un signore inglese che voleva diventare un insegnante di Dharma. Mi ha chiesto “Thay, quando pensi che qualcuno sia pronto a diventare un insegnante?” Era una fredda giornata d’inverno a Plum Village. L’ho guardato e gli ho detto: “Quando è felice”. E per lui è stata una grande delusione. Se non sei felice, se in te hai molta rabbia, molta paura, non hai molto da condividere come insegnante. Soprattutto quando ti consideri un insegnante. Perché quei piccoli bodhisattva di cui parlavo non hanno titoli di insegnante e non si considerano degli insegnanti, eppure sono i veri insegnanti. Tutti noi abbiamo esperienze del genere. Possiamo vedere nei nostri figli i nostri insegnanti: da loro possiamo imparare molto. E per me un buon insegnante è chi è capace di riconoscere la presenza di un insegnante nel suo discepolo. Da quel riconoscimento nasce la fiducia. Questa persona sarà un buon insegnante. Non per il suo talento nel parlare, nel fare discorsi di Dharma, ma per il modo in cui vive la sua vita, come un esempio. Insegni con la tua vita e non solo con i tuoi discorsi. Anche in questo caso, l’agire dovrebbe basarsi sull’essere. La base di tutto è essere pace. Ogni opera di pace deve fondarsi sull’essere pace. Come detto il Mahatma Gandhi: “La mia vita è il mio messaggio”. È ben detto. Perché l’insegnamento è la mia vita, quello che faccio, non solo quello che predico.

Ho appena visitato il monastero di Deer Park e lì ho parlato della costruzione del Sangha con diversi monaci e monache. Un giorno ho parlato con Sister Thang Nghiem. Era appena tornata dal Tempio radice in Vietnam, dove ha passato un bel soggiorno molto nutriente di ventuno giorni insieme a un gruppo di dieci monaci di Plum Village: sono tornati a casa molto ritemprati, e sono stati di grande ispirazione per tanti altri fratelli e sorelle. Le ho chiesto di una delle sorelle, un po’ più grande di lei ma ancora giovane, Sister Gioi Nghiem. Volevo sapere se in Vietnam erano andate d’accordo. È rimasta in silenzio per una trentina di secondi, un bel po’. Poi, alzando lo sguardo, ha detto: “Thay, le cose sono così facili tra me e Sister Gioi Nghiem. Ci vogliamo profondamente bene e la comunicazione tra di noi fluisce con molta facilità, perché tra noi non c’è nessuna difficoltà. Se abbiamo bisogno di fare qualcosa o discutere di qualcosa, è tutto molto veloce, non ci vogliono tanti discorsi, troviamo immediatamente un accordo”. Intendeva dire che quando c’è un senso di comunione, quando c’è comprensione reciproca, quando c’è amore e fiducia, non ci sono più difficoltà, si possono spostare le montagne. Non l’ha detto in questi termini, ma lo spirito è questo.

Organizzare bene le cose, avere talento nell’organizzazione è un bene, ma non è la cosa fondamentale. Costruire una buona struttura per la comunità è un bene, ma non è la cosa fondamentale.

La cosa fondamentale è ricevere la pratica e portarla nella vita quotidiana. Il Buddha ha detto: “L’insegnamento è meraviglioso all’inizio, a metà e anche alla fine”. Se la pratica è corretta, può portare sollievo, può portare subito gioia. Nel momento in cui respiriamo, già solo tornando con la mente all’inspirazione possiamo lasciare andare molte cose. Concentrazione e consapevolezza possono già nascere così. Generiamo l’energia della calma, della concentrazione nel corpo, nella coscienza. C’è una differenza, forse una grande differenza tra il momento che precede l’inspirazione e l’inspirazione stessa. Ed è questo il senso de “il Dharma è meraviglioso all’inizio”.

La pratica dovrebbe essere la vita, dovrebbe essere la nostra vita nella sua normalità. Mentre prepariamo la colazione al mattino, quando facciamo colazione, quei quindici o venti minuti sono il tempo della pratica. Mentre prepariamo la colazione dovremmo generare pace, concentrazione, consapevolezza. E se prepariamo la colazione in questo modo, diventiamo un fiore per la nostra famiglia, per la nostra comunità. È così piacevole vedere qualcuno che vive profondamente nella consapevolezza, praticando in modo così naturale. Quella persona è libera dal rimpianto per il passato, dal dolore per il passato. È libera dalla paura, dall’incertezza sul futuro. È davvero lì, viva nel momento presente, pienamente presente, e sta preparando la colazione: che meraviglia! Ce n’è abbastanza per rendere felice tutta la famiglia e la comunità. Per praticare non c’è bisogno di andare nella sala di meditazione.

Ieri sera ci hanno raggiunto dalla Virginia i nostri amici Thu e Anh Huong. Quando sono arrivati insieme alla piccola Bao Tich, Thay stava conducendo una meditazione camminata all’aperto. La piccola è andata in cucina e ha trovato Sister Chan Khong e altri amici che le hanno dato il benvenuto. Conosceva tutti tranne una sorella nuova. È stata ordinata esattamente un anno fa: oggi è il suo primo compleanno da monaca. È seduta proprio di fronte a me, Sister Chan Hoc Nghiem, Sorella Ornamento di Vera Pratica. Sister Chan Khong ha esortato Anh Huong a unirsi alla meditazione camminata guidata da Thay.

Ma prima che Anh Huong si avviasse, Sister Hoc Nghiem si è alzata e si è presentata a Anh Huong: «Cara sorella, sono Sister Chan Hoc Nghiem». Presentarsi è una cosa piuttosto ordinaria. Vuoi fare conoscenza con qualcuno, mettere le premesse per avere buoni rapporti con quella persona, e ti presenti. Ma lei si è presentata in un modo speciale, tanto che Anh Huong si è sentita profondamente commossa, al punto che la monaca in lei ha avuto la possibilità di venir fuori, di manifestarsi. Non si trattava di un discorso di Dharma, o di una mossa diplomatica per conquistarsi le simpatie di qualcuno. Era solo una presentazione: «Chi Anh Huong, sono Sister Chan Hoc Nghiem». Il suo corpo, la sua mente, la sua presenza si sono aperti come un ciliegio pieno di fiori. Non credo che per lei ci sia voluto uno sforzo. È stata una cosa molto naturale: questa è la sua pratica. Tutto quello che fai, tutto quello che dici durante la giornata può essere una pratica profonda. Con questo spirito, in te la trasformazione e la guarigione potranno avvenire in un attimo. Anche nella tua famiglia la trasformazione e la guarigione potranno avvenire in un attimo. E potrai essere fonte di ispirazione e punto di riferimento dell’azione per la società.

Tra i monaci – li conosco piuttosto bene, dato che viviamo insieme – ci sono molti insegnanti di Dharma. Ma ce ne sono alcuni che possono essere insegnanti degli insegnanti di Dharma. Questo significa che non hanno bisogno di praticare a lungo per essere buoni insegnanti di Dharma. Altri più anziani di loro, pur essendo insegnanti di Dharma, praticano meno bene. Questo non vuol dire che non si rivolgano agli anziani con profondo rispetto. Sanno che gli anziani hanno avuto l’opportunità di ottenere la trasmissione della lampada molti anni prima di loro, e che dentro di sé hanno ancora delle difficoltà. Questo non vuol dire che non trattino gli anziani con considerazione e rispetto. Nessun complesso, nessuna arroganza. Sono un fratello minore, sono una sorella minore, il ruolo che vorrei avere è quello di un fratello minore amorevole, di una sorella minore amorevole per i miei fratelli e le mie sorelle maggiori nel Dharma. Nessun complesso di superiorità. A proposito, nell’insegnamento del Buddha, pensare di essere inferiori agli altri è una forma di malattia. Ma anche pensare di essere superiori è una malattia. E secondo il Buddha, è una malattia anche pensare di essere uguali. Perché tutti e tre i complessi si fondano sulla nozione di un sé. Finché ti consideri un sé separato dalle tue sorelle e dai tuoi fratelli, sei ancora affetto da una particolare di malattia forma chiamata attaccamento. Nel momento in cui vedi che tua sorella è te, che tuo fratello è te, che tu sei in tuo fratello e tuo fratello è in te, solo in quel momento sei libero dalla malattia. Credo che da questo la psicoterapia abbia qualcosa da imparare. Qualunque insegnamento, qualunque pratica che sia ancora basata sul sé, sulla nozione del sé, non può portare liberazione.

L’autostima è una forma di malattia. Una grande autostima è una malattia. Una bassa autostima è una malattia. E anche un’autostima uguale è malattia. Solo la visione profonda dell’interessere [è libera dalla malattia], tu sei me e io sono te, «io trasformo la mia spazzatura perché tu non debba soffrire, tu coltivi il fiore (in te) perché io sia felice», ovvero, di rimando, «tu sei tu e io sono io, se capita che possiamo incontrarci, bene, altrimenti va bene lo stesso». Quindi, ci sono insegnanti di Dharma meravigliosi, molto talentuosi, molto efficaci, eppure molto umili, molto amorevoli, senza alcuna discriminazione in se stessi. E questi insegnanti possono essere molto giovani. Non gli dispiace avere insegnanti che non sono efficaci come loro. Se l’altro è un buon insegnante, mi fa piacere. Se l’altro non è bravo come insegnante, spero che possa migliorare. E dato che in te si manifesta questo genere di intuizione, non soffri affatto. Non ti trovi a dire: «Com’è possibile che una persona del genere riceva la trasmissione della lampada e diventi un insegnante?» In realtà, ci sono persone che non hanno mai ricevuto la trasmissione e non ci pensano affatto, non desiderano affatto di ricevere la trasmissione della lampada, eppure sono maestri meravigliosi. C’è un verso in cinese che dice:

«Il novizio fa un discorso di Dharma

E il venerabile bhiksu [o bhikshu, monaco pienamente ordinato] si mette a sedere tranquillo e ascolta».

A contare non è l’età o gli studi, ma la natura del Buddha in noi, la potenzialità che abbiamo in noi di essere veri maestri. E possiamo vedere la potenzialità di essere un insegnante anche in un piccolo novizio. Quindi, non dovremmo preoccuparcene. Non ci serve un titolo per essere un buon insegnante. Per prima cosa, dobbiamo insegnare a noi stessi a vivere felici, a perdonare, ad essere aperti: così facendo, daremo l’esempio a tante persone.

La giacca marrone. Come rendere la giacca più invitante. Cosa significa, la giacca? La giacca è come un segno per essere identificati. Se sei un praticante, vorrei unirmi a te. E sarebbe molto utile se mi aiutassi a riconoscerti come praticante, come qualcuno che è sul sentiero. Ecco cosa significa la giacca. Non significa che «ho ricevuto un’ordinazione, sono degno di rispetto, ho il diritto di fare questo o quello». No. L’abito non fa il monaco. È la pratica, è il modo in cui vive che fa il monaco oppure no. E c’è anche chi non indossa l’abito da monaco, ma in realtà è un monaco o una monaca. Possiamo riconoscerlo. Molti monaci e monache non reggono il confronto sul piano della pratica. Come fare a rendere la nostra pratica più invitante? Noi pratichiamo in modo tale da diventare davvero come fratelli e sorelle gli uni per gli altri, in modo che tutto fluisca al meglio in noi stessi e nella comunità, in modo che ci sia visibilmente armonia, pace, felicità, ed è questo che è veramente invitante. Non il fatto che organizziamo bene le cose, o abbiamo ottimi mezzi di comunicazione, un sito web, internet e così via. E per me una persona, un buon praticante è molto. La felicità può essere contagiosa, la gioia può essere ispiratrice, la pace può essere ispiratrice. Se siamo membri dell’Ordine dell’Interessere siamo motivati dal desiderio di vivere la nostra vita in modo tale da rendere possibile l’armonia, la non paura, la compassione nella vita quotidiana. Siamo animati dal desiderio di costituire un gruppo di persone, un sangha, che possa essere un rifugio per tante persone. Perché il modo in cui siamo insieme, pratichiamo insieme è di ispirazione per gli altri e indica la strada a molti.

Sapete, il Vietnam è ancora un paese comunista e a Thay non è permesso di andare a casa e insegnare lì. Anche i monaci inviati dal nostro tempio in Viet Nam non possono insegnare, e devono alloggiare negli alberghi, non nei templi. I dieci monaci che sono stati inviati in Vietnam, hanno viaggiato un po’ da nord a sud, e sono rimasti per ventuno giorni al tempio radice. Anche se non hanno insegnato, il loro modo di muoversi è stato di ispirazione per migliaia e migliaia di persone. Perché sono dieci persone, ma sembrano una sola. E invogliano davvero tante persone a stare con loro. C’è stato un giorno in cui tutti e dieci hanno praticato la meditazione camminata attraversando il ponte di Trang Thien e il mercato di Dong Ba. La loro pratica si limitava al camminare, ma migliaia di persone sono rimaste colpite da quella vista. Che bello, che bello, dicevano. Sono accorsi in molti per poter vedere i nostri fratelli e le nostre sorelle. In pochissimo tempo tutta la città sapeva della presenza dei dieci monaci e monache. E la notizia ha raggiunto anche la provincia settentrionale di Quang Tri. Molte persone sono venute al tempio radice per avere la possibilità di incontrare i nostri monaci. Il modo in cui stiamo insieme è un discorso di Dharma. Il modo in cui camminiamo, il modo in cui respiriamo è un discorso di Dharma che ispira fiducia, che porta agli altri molta felicità. C’era una signora a Hue che dopo aver visto i monaci e le monache ha detto: «Ora posso morire senza rimpianti. Ho visto l’immagine del vero sangha, il vero Dharma».

(La prossima volta possiamo rispondere ad altre domande.)

22 agosto 2001, Monastero di Deer Park: Insegnamento per i membri dell’Ordine dell’Interessere

Tre suoni di campana

Oggi è il 22 agosto 2001 e ci troviamo al monastero di Deer Park.

C’è un sutra intitolato Yasoja: è il nome di un monaco, il leader di un sangha. Appartiene alla raccolta degli Udana, i detti ispirati.

Yasoja era il leader di un sangha, una comunità di monaci, circa 500. Un giorno condusse i 500 monaci nel luogo dove viveva il Buddha, sperando che potessero unirsi al ritiro di tre mesi con il Buddha. Mancavano circa dieci giorni all’inizio del ritiro e i monaci erano molto contenti di essere arrivati lì, al pensiero che avrebbero visto il Buddha e gli altri monaci. Vi furono saluti e tante chiacchiere e dalla sua capanna il Buddha sentiva un gran chiasso. Chiese ad Ananda: «Cos’è questo rumore? Sembrano pescatori che scaricano il pescato». Ananda rispose che il venerabile Yasoja era arrivato con 500 monaci e che stavano salutando i monaci residenti e si stavano intrattenendo con loro, e che quello era il motivo di tanto rumore.

Il Buddha disse: «Digli di venire da me». Al cospetto del Buddha i monaci toccarono la terra e si misero a sedere. Il Buddha disse: «Dovete andare via. Non potere restare qui con me: siete troppo rumorosi. Siete congedati».

Allora i 500 monaci toccarono la terra, fecero la circumambulazione intorno al Buddha e lasciarono il monastero del parco di Jeta. Si spostarono nel regno di Vajji, nella parte orientale del Koshala, viaggiando per diversi giorni per raggiungere quel territorio. Arrivati alle rive del fiume Vaggamuda si sedettero, e poi cominciarono a costruire delle piccole capanne per il ritiro delle piogge. Durante la cerimonia di apertura del ritiro, il venerabile Yasoja disse: «Il Buddha ci ha mandato via per compassione. Dovete sapere che Egli si aspetta che noi pratichiamo profondamente e con successo. Per questo ci ha mandato via. È stata un’espressione del suo profondo amore».

Tutti i monaci poterono rendersene conto e convennero di praticare con diligenza durante il ritiro delle piogge per mostrare al Buddha di essere suoi degni discepoli. Così dimorarono nella quiete e praticarono in modo molto profondo, ardentemente, con molta stabilità. Dopo soli tre mesi di ritiro, la maggior parte dei monaci aveva realizzato i tre tipi di illuminazione, i tre ottenimenti. Uno riguarda il ricordo di tutte le vite passate. Il secondo consiste nel vedere le vite degli esseri umani come altri esseri – il loro venire e dopo un certo periodo di tempo il loro andare – e nel vederlo con molta chiarezza. La terza realizzazione si ottiene quando nel praticante si estinguono le principali afflizioni: non c’è più brama, rabbia e ignoranza.

Un giorno, dopo il ritiro delle piogge, il Buddha disse ad Ananda: «Quando guardo verso est, vedo che c’è una buona energia, l’energia della luce e della bontà, e in concentrazione vedo che i 500 monaci che ho mandato via sono andati molto in profondità». Ananda disse: «È vero, Signore, così ho udito. Dopo essere stati licenziati si sono stabiliti nel territorio del Rajghir e hanno iniziato una seria pratica. Ora hanno tutti realizzato i tre ottenimenti». Allora il Buddha disse: «Bene. Perché non li invitiamo a venire a trovarci?».

Ricevuto l’invito del Buddha, i 500 monaci furono molto contenti di andare a fargli visita. Dopo molti giorni di viaggio arrivarono verso le sette di sera e trovarono il Buddha seduto in silenzio. Videro che il Buddha si trovava in uno stato di concentrazione detto imperturbabilità. In questo stato non si è perturbati da nulla, si è molto liberi e molto stabili. Non si è scossi da nulla, dalla fama, dal desiderio, dall’odio, neppure dalla speranza. Quando i monaci si resero conto che il Buddha era nello stato chiamato imperturbabilità, dissero: «Il Signore siede in questo stato, perché non sediamo come lui?» Così si misero tutti a sedere come il Signore, nel parco di Jeta, con molta bellezza, con molta profondità, con molta stabilità. Tutti entrarono nello stato di imperturbabilità e sedettero come il Buddha. Rimasero seduti a lungo. A notte inoltrata, quando già era suonata la prima ora, il venerabile Ananda si accostò al Signore, si inginocchiò e gli disse:

«Signore, è già notte alta. Perché non parli ai monaci?».

Il Signore non disse nulla e tutti continuarono a rimanere seduti. Passò anche la seconda ora della notte ed erano ormai circa le due o le tre del mattino. Ananda venne di nuovo, si inginocchiò e disse: «Ormai è notte fonda. È suonata la seconda ora. Per favore, parla ai 500 monaci». Ma il Buddha rimase in silenzio e rimase seduto. Tutti i monaci rimasero anch’essi seduti.

Infine passò la terza ora della notte e il sole cominciò ad apparire all’orizzonte. Ananda venne per la terza volta, si inginocchiò davanti al Buddha e disse: «Grande Maestro, ora che la notte è finita, perché non ti rivolgi ai monaci?» Il Buddha aprì gli occhi, guardò Ananda e disse: «Ananda, tu non sapevi cosa stava succedendo. Ecco perché sei venuto a chiedermelo tre volte. Ecco cosa accadeva: ero seduto in uno stato di imperturbabilità insieme a tutti i monaci, anche loro seduti in quello stesso stato, senza che nulla li disturbasse. Questa è la situazione migliore in cui possiamo trovarci. Non abbiamo bisogno di altro. Non ci serve affatto comunicare. Non occorrono saluti. Parlare non è necessario. È la cosa più bella che può accadere tra insegnante e allievo. Ci siamo seduti così, e ciascuno di noi ha dimorato in uno stato di pace, stabilità e libertà».

Trovo questo sutra molto, molto bello. La comunicazione tra insegnante e allievo è perfetta. Quel che un allievo dovrebbe aspettarsi da un insegnante, non è altro che la libertà dell’insegnante. L’insegnante dovrebbe essere libero dal desiderio, libero dalla paura, libero dalla disperazione. Quando arrivi al tempio non devi avere aspettative futili come poter bere una tazza di tè con l’insegnante o sentirti dire quanto sei bravo, che hai tanti meriti e così via. Queste sono cose da nulla. Da un insegnante dovresti aspettarti molto di più di questo. Se il tuo insegnante ha libertà a sufficienza, pace a sufficienza e visione profonda a sufficienza, sarà questo a renderti pienamente soddisfatto. Se non ha stabilità, libertà, allora non dovrebbe essere il tuo insegnante e non dovresti accettare quell’uomo o quella donna come tuo insegnante, perché non ne otterrai nulla.

Come insegnante di Dharma o come fratello o sorella maggiore nel Dharma, cosa ti aspetti dai tuoi allievi? Anche in questo caso, non dovresti aspettarti delle minuzie. Non dovresti aspettarti che un allievo o un’allieva ti porti una tazza di tè, un buon pasto, una torta o che dica parole di lode. Queste sono cose senza importanza. Dai tuoi allievi dovresti aspettarti la loro trasformazione, la loro guarigione e la loro libertà.

Quando è così, l’insegnante e gli studenti si trovano in un perfetto stato di comunicazione. Non è necessario dirsi nulla. Non hanno bisogno di fare granché. Si siedono insieme in questo modo, in uno stato di stabilità, di imperturbabilità, ed è proprio questo l’aspetto più bello del rapporto tra insegnante e allievo.

Ho trovato questo sutra davvero molto, molto bello.

(segue una lunga pausa)

Quando un allievo pratica bene, può vedere l’insegnante in se stesso, in se stessa. Allo stesso modo, quando un insegnante pratica bene, può vedere se stesso nell’allievo. L’uno e l’altro non dovrebbero aspettarsi nulla di meno. Se vedi sempre l’insegnante come qualcuno al di fuori di te stesso, non hai tratto molto profitto dal tuo insegnante. Devi vedere che il tuo insegnante è in te, in ogni momento. Se non lo vedi, la tua pratica non è andata affatto per il verso giusto. E se come insegnante guardando i tuoi allievi non ti rivedi in quegli allievi, il tuo insegnamento non è servito a molto.

Quando guardo alla persona di un allievo, che si tratti di un monaco o di un laico, vorrei vedere realizzato il solo scopo del mio insegnamento: trasmettere ai miei allievi la mia visione profonda, la mia libertà e la mia gioia. Se nei suoi occhi vedo questi elementi, sono molto contento. Sento di aver trasmesso bene il meglio che c’è in me. Guardando il modo di camminare, di sorridere, di salutare di un allievo, il suo modo di essere, posso vedere se il mio insegnamento è stato fruttuoso o no. La cosiddetta “trasmissione” è questa.

La trasmissione non è una cerimonia organizzata con incensi e canti. La trasmissione avviene ogni giorno, con molta semplicità. Se il rapporto insegnante/allievo è buono, allora la trasmissione si realizza in ogni momento della vita quotidiana. Non ti senti lontano dal tuo insegnante. Senti che lui o lei è sempre con te, perché l’insegnante fuori è diventato l’insegnante dentro. Sai guardare con gli occhi del tuo insegnante. Sai camminare con i piedi del tuo insegnante. Il tuo insegnante non si allontana mai da te. Non è qualcosa di astratto: possiamo vederlo coi nostri occhi. Se guardi un monaco, una monaca o un allievo laico e vedi Thay in lui, sai che è pienamente un allievo di Thay. Può darsi anche, se non lo vedi, che sei appena arrivato e tu stesso non hai affatto Thay dentro di te, ma hai solo tanta curiosità.

Possiamo anche vederlo quando ci guardiamo dentro – possiamo vedere se il nostro modo di camminare o di sorridere o di pensare ha in sé quell’elemento di libertà, di gioia, di compassione – e allora sappiamo che Thay è stato acquisito in noi come vera continuazione del nostro insegnante. Non hai bisogno che te lo dica qualcun altro: puoi saperlo da solo. E anche quando guardi qualcun altro, puoi vederlo da te. Se il rapporto insegnante/allievo è buono, la trasmissione avviene quotidianamente, in ogni momento della vita.

Ogni volta che facciamo un passo, sappiamo già se quel passo contiene pace, gioia, stabilità oppure no. Non hai bisogno che te lo dica il tuo insegnante. Sai bene se il tuo passo è un passo reale, che ha in sé stabilità e libertà, oppure no. Se il tuo passo non ha libertà in sé, sai bene che non ce l’ha. Se il tuo passo non ha in sé l’elemento della stabilità, sai che non è così. Non è difficile: è assolutamente evidente.

Il tuo passo è come una tazza: se è vuota, ci si può versare del succo o del tè. Se nella tazza c’è qualcosa, si vede. Quando nella tazza c’è del tè, puoi bere il tè. Prima faccio un passo qui, un passo qui, un passo qui, un passo qui (Thay fa qualche passo mentre parla). La mia pratica è riempire ogni passo con l’elemento della stabilità e della pace. Perché so bene che ogni passo fatto così è profondamente nutriente e benefico. Quando faccio un passo, dico: «Sono arrivato» o «Sono a casa». Quindi c’è l’elemento dell’arrivare qui, e tu sai se sei arrivato o no. Non sai come assaporare ogni passo perché per tutta la vita non hai fatto altro che correre. Ora sei diventato un allievo del Buddha e vuoi fare dei passi veri: ogni passo dovrebbe essere pieno dell’elemento dell’arrivare, pieno dell’elemento del qui e ora, pieno dell’elemento della stabilità, della saldezza e della libertà.

Ai tempi del Buddha non c’erano aerei, non c’erano autobus e non c’erano auto. Per spostarsi da un paese all’altro, il Sangha non faceva altro che camminare. Soggiornavano in molti paesi, eppure si spostavano soltanto camminando. Avevano un loro modo di camminare, che gli permetteva di assaporare ogni passo che facevano. Il Buddha era un monaco e anche i suoi allievi erano monaci. Camminavano insieme in questo modo da un posto all’altro come monaci viaggianti, fermandosi solo per i tre mesi delle piogge. Quindi avevano tutto il tempo per praticare la meditazione camminata, e ovunque andassero, con il loro modo di camminare e di sedersi, erano di ispirazione per gli altri. Quando ti siedi e quando cammini, puoi arrivare pienamente. Non hai fretta, non stai cercando qualcos’altro al di fuori di te stesso. Sai che tutto quello che state cercando è qui e ora ed è per questo che ogni passo che fai ti aiuta ad arrivare qui e ora. Questo è il motivo per cui l’insegnamento e la pratica dell’arrivare è così magnifica, meravigliosa.

Correre è tipico della nostra società. Tutti corrono, corrono verso il futuro. Vuoi assicurarti un buon futuro e, visto che intorno a te vedi altri che corrono, non puoi fare a meno di correre anche tu. Se in te non hai pace, non hai modo di essere qui e ora e di entrare profondamente in contatto con la vita. Correndo in quel modo, speri di arrivare. Ma correre così è diventato un’abitudine e non riesci più ad arrivare. Tutta la tua vita diventa una corsa.

In questo insegnamento, in questa pratica, il punto di arrivo non è lì da qualche parte. Il punto di arrivo è qui, in ogni minuto, in ogni secondo. La vita è come una passeggiata: si trova qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui, in ogni passo. Facciamo così (Thay cammina lentamente). Così la vita può stare in un passo, e nello spazio tra un passo e l’altro. Se ci aspettiamo di vedere la vita fuori da questi passi e fuori dallo spazio tra un passo e l’altro, la vita ci sfugge. È perfettamente chiaro, eppure la gran parte di noi va di corsa. Ecco perché la pratica dell’arrivare è tanto importante. È un estremo rimedio per guarire la nostra società, perché ti porti dentro, ciascuno di noi si porta dentro l’intera società. L’intera società va di corsa, quindi ciascuno di noi va di corsa. Quindi il risveglio può dare origine al desiderio di resistere, di fermarsi.

L’insegnamento delle Tre porte della liberazione è cruciale: la porta della vacuità, la porta dell’assenza di segno e la porta dell’assenza di scopo. Assenza di scopo significa che non vai più di corsa. Non corri dietro a nulla, perché quello che vuoi diventare lo sei già. Quello che stai cercando c’è già, nel qui e ora. La tua pace, la tua felicità, la tua stabilità, la tua libertà sono accessibili a ogni passo. L’assenza di scopo è la tua occasione per fermarti. Non c’è più bisogno di correre. Se pensi di conquistare la pace e la libertà, la pace e la libertà sono proprio qui, proprio ora. La convinzione che la pace e la libertà siano nella direzione opposta è una convinzione erronea. Ecco perché ogni tuo passo dovrebbe portarti nel luogo in cui ci sono libertà e stabilità. Libertà e stabilità sono la base della vera felicità: senza stabilità, nessuna felicità è possibile; nessuna felicità è possibile senza libertà. Ogni passo può generare stabilità e saldezza. Ogni passo può generare l’energia della libertà. Se cammini nel modo giusto, a ogni passo può generarsi l’energia della libertà e della stabilità, e la felicità è lì, in ogni passo.

Chi ti guarda camminare può vedere se nei tuoi passi c’è l’elemento della stabilità e della libertà. Non c’è bisogno che te lo dica il Buddha. Non c’è bisogno che te lo dica qualcun altro. Tu stesso sai perfettamente se il tuo passo ha in sé l’elemento della stabilità oppure no. Cammini ma sei già arrivato, a ogni passo, e camminare così è la tua pratica quotidiana. L’arrivo è raggiunto in ogni passo. Sarebbe davvero gentile bello mandare a Thay una cartolina per dirglielo: «Thay, sono arrivato». È proprio quello che lo farà felice. «Sono arrivato, non corro più».

L’abitudine di correre è diventata molto forte. È un’abitudine collettiva, un’energia collettiva. sul piano mentale, correre ti sembra normale, ma non è normale perché se continui a correre così, la felicità non sarà possibile, la pace non sarà pace. È qualcosa che contribuisce alla sofferenza collettiva e a quella individuale. Quindi imparare a fermarsi è molto importante.

Il Buddha e i suoi monaci non avevano molto da mangiare. Non avevano un conto in banca. Non avevano grandi proprietà o case. A ogni monaco spettavano solo tre vesti, una ciotola per elemosinare il cibo e un filtro per l’acqua. Il loro bagaglio era questo. I monaci e le monache del nostro tempo fanno del loro meglio per seguire questo esempio.

Se vuoi diventare un monaco o una monaca non puoi avere un conto bancario personale. A Deer Park nessuno ha un conto in banca. Nessuno ha un’auto tutta sua. Anche le vesti che indossiamo non ci appartengono: sono del Sangha. Se hai bisogno di una veste, il Sangha te la fornisce, ma quella rimane comunque una veste del Sangha. Anche il tuo corpo non è una tua proprietà personale, non ti appartiene. Sei tenuto a prenderti cura del tuo corpo perché è parte del corpo del Sangha. Altri monaci e monache sono tenuti a dare un contributo alla cura del tuo corpo e tu devi permettere loro di prendersi cura di te. Dato che il tuo corpo appartiene a tutto il Sangha, al Sanghakaya, il loro intervento può riguardare il tuo modo di mangiare e di bere. Tu non possiedi nulla, neanche il tuo corpo, eppure la felicità è possibile, la libertà è possibile. Se non possiedi molte cose, la felicità è più facile. Di solito, chi possiede nulla ha paura, è terrorizzato, non ha certezze. Ma la pratica di un monaco è tutto il contrario: ciò che garantisce il tuo benessere non sono le cose che possiedi, ma fare dono di ogni tuo bene.

Ricordo quando Sister Thuc Nghiem, Sister Susan e molte altre sorelle come Emilie sono diventate monache. Hanno preso tutto quello che avevano in tasca e l’hanno dato a Thay: 25 centesimi, le chiavi della macchina. Per diventare monaca o monaco sei tenuto a rinunciare a tutto: non devi avere un appartamento, un’auto o altro. Prima di poter essere accettato come novizio ordinato, devi fare dono di tutto ciò che possiedi, e ti viene chiesto di non donarlo al tempio dove diventerai monaco o monaca, ma a qualche altra organizzazione. Un giorno Thay ha dato un esercizio a tutti i monaci e a tutte le monache: «Parlami della tua felicità quotidiana. Prendi un foglio di carta e una matita e scrivi della tua felicità quotidiana». Molti hanno riempito più di due pagine. Ricordo che una delle cose che ha scritto Sister Susan era: «La mia felicità è che non ho più soldi». È vero. Prima di diventare monaca aveva consegnato una grossa somma di denaro, ma quello che le mancava era la pace. Non aveva felicità. Dando via tutte quelle cose per diventare monaca ha guadagnato molto in autonomia, in libertà, e questo è il fondamento della felicità. Ed è per questo che ha scritto: «La mia felicità è che non ho più soldi». È una felicità che sentiva davvero.

(Tre suoni di campana)

Molti credono che praticare come monaco sia la via più difficile… ma non è così. Praticare come monaco o monaca è facile. Per prima cosa, ti sei affidato interamente al Sangha. Non hai bisogno di preoccuparti di nulla: cibo, casa, medicine, spostamenti. Poi sei circondato da persone che praticano come te, che camminano in consapevolezza assaporando ogni passo. Sarebbe strano se non facessi anche tu la stessa cosa. Così la tua mente si lascia trasportare sulla barca del Sangha: anche se non vuoi andare nella direzione della pace e della libertà, ci vai lo stesso! Hai lasciato la tua famiglia – tuo padre, tua madre, i tuoi amici, il tuo lavoro – per diventare un monaco o una monaca, e il tuo scopo è raggiungere la libertà, perché sai che senza libertà la vera felicità non è realmente possibile. Hai una profonda aspirazione alla libertà: libertà in questo caso significa libertà dalle afflizioni.

Certo, la libertà politica è una bella cosa, ma se non sei libero dalle tue afflizioni, per te la libertà politica non ha alcun valore. Mettiamo che sei un rifugiato che non può andare dove vuole: il tuo desiderio più profondo è avere una carta d’identità o un passaporto. Puoi passare dieci, venti, o anche trent’anni senza che tu ottenga quel passaporto che ti darebbe la libertà, che ti permetterebbe di andare dove vuoi. Ci sono altri che hanno quel passaporto, quel pezzo di carta, ma che non provano nessuna felicità, e alcuni addirittura si suicidano. La libertà politica è qualcosa di desiderabile, ma se non sei liberi dalle tue afflizioni – cioè desiderio, disperazione, invidia – la sofferenza sarà ancora lì, dentro di te e intorno a te. Ecco perché lo scopo della pratica è diventare liberi… diventare liberi in modo che il Regno di Dio diventi accessibile nel qui e ora. Diventare liberi in modo che per te la vera vita sia possibile nel qui e ora… che per te la terra pura del Buddha sia accessibile nel qui e ora.

A volte la terra pura del Buddha con tutte le sue meraviglie sembra molto vicina. Di fatto, tutto ciò che è dentro di noi e tutto quello che ci circonda è un miracolo: il tuo occhio è un miracolo; il tuo cuore è un miracolo; il tuo corpo è un miracolo; l’arancia che stai mangiando è un miracolo; e la nuvola che fluttua nel cielo è un miracolo. Se non appartengono al Regno di Dio, a cosa appartengono? Di tanto in tanto abbiamo la chiara impressione che il Regno è qui, accessibile nel nostro quotidiano. Ma dato che corriamo sempre, non abbiamo la libertà di assaporarlo, non vi abbiamo accesso.

Come dire che per te il Regno di Dio ha le porte aperte, ma la tua porta non è aperta al Regno di Dio. Ecco perché bisogna imparare a vivere, a camminare, in modo tale da diventare liberi. La pratica non ha altro significato.

Praticare non significa diventare insegnanti di Dharma: un insegnante di Dharma non è nulla. Non significa diventare leader di un Sangha: essere leader di un Sangha non significa nulla. A che serve essere a capo del gran tempio se nel profondo continui a soffrire? Lo scopo della pratica è diventare liberi: con la tua libertà, la felicità è possibile. Con la tua libertà e la tua felicità puoi aiutare davvero tante persone, perché hai qualcosa da condividere, da offrire. Non condividi le tue idee, non condividi le conoscenze che hai accumulato con i tuoi studi buddhisti. Persino gli studiosi di buddhismo possono soffrire molto profondamente, perché per loro le idee buddhiste non sono state affatto di aiuto. Quello di cui hai bisogno è la libertà: certo, gli studi buddhisti possono essere utili, ma la nostra felicità è una raccolta di pace, che comprende quello che studiamo e l’autorità che ci viene riconosciuta nel Sangha e nella società. Molte persone nella nostra società non sono veramente felici e molte si suicidano. La nostra via dovrebbe essere diversa: è la via della libertà.

È possibile essere liberi? Guardando la persona di un praticante, un fratello o una sorella di Dharma, il tuo insegnante, puoi vedere quanta libertà c’è in lui, quanta libertà e quanta felicità ci sono in lei. Il nostro desiderio è avere dei veri fratelli e sorelle nel Dharma, perché stando seduti accanto a loro, vivendo vicino a loro, traiamo beneficio dalla loro felicità e dalla loro libertà, perché la loro felicità si basa sulla loro libertà e non su qualcos’altro, come il cambiamento, l’autorità, il potere. Quello che ci procura beneficio, in un Sangha, è l’opportunità di fare quello che fanno gli altri – sedersi, camminare, sorridere, salutarsi – al solo scopo di ottenere la libertà, di fermarsi.

Che cosa significa indossare una giacca marrone? Non è per far sapere che sono un membro ordinato dell’Ordine. Questo non è nulla. Ha il valore di una carta dello studente: sei entrato in una famosa università e ti hanno dato una carta dello studente, ma se non studi, a che serve avere la carta? Avere la carta significa poter usare la biblioteca, andare a lezione e avere professori e strumenti per studiare. Quindi, quando vieni ordinato, ricevi i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza e la giacca. Sono una carta dello studente che permette di trarre beneficio dal Sangha, dall’insegnamento, della pratica.

Ci sono i centri di pratica, ci sono i monasteri, ci sono gli insegnanti, ci sono i fratelli e le sorelle nel Dharma con la loro pratica, ed essere membri dell’Ordine dell’Interessere ci aiuta a trarre beneficio da tutto questo per avanzare sul nostro cammino di libertà. Se abbiamo libertà a sufficienza, possiamo rendere felici anche gli altri. Sappiamo bene che praticare senza un Sangha è difficile, quindi facciamo del nostro meglio per creare un Sangha nel luogo in cui viviamo. Far parte dell’Ordine dell’Interessere è meraviglioso. Essere un insegnante di Dharma è meraviglioso. È meraviglioso non perché abbiamo il titolo di membro dell’Ordine dell’Interessere o di insegnante di Dharma, ma perché abbiamo un’occasione di praticare e organizzare.

Come membro dell’Ordine dell’Interessere, sei tenuto a organizzare la pratica. Ovunque tu sia, sei tenuto a costituire un gruppo di pratica, altrimenti essere membro dell’Ordine dell’Interessere non significa nulla. Un membro dell’Ordine dell’Interessere è tenuto a organizzare la pratica nel luogo in cui vive – per cinque persone, sei persone, dieci persone, venti persone – e a essere molto affidabile nella pratica, operando a livello locale e a volte a livello nazionale. Devi prenderti cura del Sangha e sostenere il Sangha perché il Sangha è ciò che ti sostiene nella tua pratica. Quindi costruire il Sangha significa costruire te stesso. Se un Sangha c’è già, pratichi con il Sangha in modo da trarne beneficio come costruttore di Sangha, cogliendo questa opportunità di praticare.

Anche essere un insegnante di Dharma è un’opportunità di pratica: non puoi non praticare! Per avere qualcosa da insegnare, devi praticare. Come puoi aprire bocca e offrire l’insegnamento se non lo metti in pratica per primo? L’insegnamento è un’opportunità: anche se non sei ancora un perfetto insegnante, parlare del Dharma come insegnante di Dharma è di grande aiuto, perché devi mettere in pratica quello che condividi, altrimenti suona strano. È come per un monaco che vive con altri monaci: quando tutti praticano la meditazione camminata, sarebbe strano se quel monaco non la praticasse. Quindi, come insegnante di Dharma, hai una grande opportunità di pratica. Ciascun membro del Sangha può creare condizioni favorevoli per te, per quanto bravo sia nella pratica oppure no. Chi ha una pratica solida può ispirarti a emularlo o emularla, mentre chi è più incerto nella pratica può indurti a offrire aiuto. Quindi essere un insegnante di Dharma è una buona cosa.

Sarebbe strano se ricevessi la trasmissione e la giacca e non costruissi il Sangha per accompagnarti nella pratica. Sarebbe proprio come ricevere la carta dello studente e non andare mai in biblioteca o a lezione, continuando a dire: «Sai, sono uno studente di quella famosa università». Quindi quello che facciamo è costruire il Sangha, e costruire il Sangha è la nostra pratica. Costruire il Sangha significa individuare gli elementi del Sangha e invitare ogni elemento del Sangha invitandolo a unirsi alla pratica. Sei come un giardiniere: ti prendi cura di ogni membro del Sangha, contribuisci alla sua crescita. Ci saranno membri con cui la convivenza e i rapporti saranno molto facili, e ci saranno membri con cui la convivenza e i rapporti saranno difficili, ma come costruttore di Sangha devi aiutare tutti. Ci saranno membri del Sangha la cui presenza ti porterà una gioia profonda. E ci saranno altri membri del Sangha con cui dovrai essere molto paziente.

Per favore, non credere che a Plum Village per Thay le cose siano facili con tutti i monaci e tutti i laici! Non è così. Ci sono monaci con cui è facile andare d’accordo e che è facile aiutare, e ci sono monaci davvero difficili. Ma un insegnante deve dedicare più tempo ed energie a chi è difficile. Potresti trovarti nella situazione di arrabbiarti e voler dire dire “no” a questi elementi difficili. Ma questo significa arrendersi. Se non vuoi difficoltà, non puoi diventare un buon insegnante di Dharma. In un Sangha ci devono essere persone difficili, è normale. Le persone difficili sono una buona cosa per te, perché mettono alla prova la tua capacità di costruire il Sangha, la tua pratica del Sangha.

Un giorno, quando quella persona ti dirà qualcosa di spiacevole, sarai capace di sorridere e non soffrire affatto. La tua compassione si sarà sviluppata: riuscirai ad accogliere l’altro nell’abbraccio della tua compassione e della tua comprensione. In quel momento saprai che la tua pratica è cresciuta. Sarai felice di vedere che una frase, un gesto del genere non ti fa più arrabbiare, perché hai sviluppato compassione e comprensione a sufficienza. Ecco perché non dobbiamo cedere alla tentazione di eliminare l’elemento che nel Sangha ci sembra difficile.

La costruzione del Sangha richiede molto amore e molta compassione. Se sai come gestire i momenti difficili, crescerai come costruttore di Sangha e crescerai come insegnante di Dharma. Thay, parlando per esperienza personale, può dire di aver sviluppato nel tempo la sua pazienza e la sua compassione, e che grazie al fatto di avere più pazienza e compassione, la sua felicità è molto più grande. Su questo punto, puoi fare affidamento su quello che dice Thay. Se soffriamo, è perché la nostra comprensione e la nostra compassione non sono abbastanza grandi da abbracciare le persone difficili. Ma con la pratica, il tuo cuore crescerà, la tua comprensione e la tua compassione cresceranno, e non soffrirai più. Avrai molto spazio e darai agli altri molto tempo e molto spazio per trasformarsi. Grazie alla pratica del Sangha, grazie all’esempio che offri con la tua pratica, le persone che ti sono sembrate difficili si trasformeranno. È un grande successo, molto più grande di quello che puoi ottenere con persone cordiali. L’amore non è solo una questione di piacevolezza: troviamo piacevole la compagnia di persone cordiali. L’amore è una pratica che permette di accrescere la compassione e la comprensione. Ricorda sempre: l’amore non è solo una questione di piacevolezza. L’amore è una pratica. Ed è questo l’aspetto dell’amore che può portare crescita e felicità: la felicità più grande di tutte.

Non c’è una via verso la felicità: la felicità è la via. Bisognerebbe trovare la felicità in ogni momento del quotidiano e non alla fine della strada. La fine della strada sta nel fermarsi, perché la vita è ora, in ogni secondo, in ogni momento. La pace è ogni passo, la felicità è ogni passo. È così chiaro, così semplice, così evidente!

Supponiamo di rappresentare con un cerchio il mio Sangha radice, dove sono stato ordinato ricevendo i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, dove ho avuto un insegnante e molti fratelli e sorelle di Dharma. Quello è il mio luogo di nascita. Il Sangha radice è il mio luogo di nascita spirituale, e ogni volta che ci penso mi dà gioia, gioia pura, e speranza. Ogni volta che ci penso mi sento ispirato, mi sento felice. Tutti noi dovremmo avere un luogo che ci portiamo dentro, ovunque andiamo. Non è solo un luogo fisico situato nello spazio: è dentro di noi. Chi di noi non si porta nel cuore un luogo così, non ha felicità a sufficienza. Tornare al Sangha radice e starci è un piacere. Sto qui perché ho una funzione, un ruolo nella società. Sto qui, ma ho nel cuore il mio Sangha radice come fonte di ispirazione, come fonte di energia.

Intorno a me ho costruito un Sangha locale. E sono consapevole che se per me è il mio Sangha locale, per molte altre persone sarà il loro Sangha radice. Che si trovi a Chicago, a Buffalo o da qualche altra parte, per gli amici che vengono qui a imparare la pratica, il mio Sangha locale diventerà il loro Sangha radice. Quindi il Sangha radice non è da qualche parte là fuori: è qui, dentro di me. Avere in me la sede del mio Sangha radice contribuirà a trasformare questo Sangha locale in un Sangha radice per gli altri. Sono un membro dell’Ordine dell’Interessere. Devo farne una casa per gli amici che costituiscono il mio Sangha qui e il mio Sangha di qui riflette l’immagine del mio Sangha radice lì dove si trova.

Nel mio Sangha, tutti sanno assaporare ogni passo, ogni respiro. Sanno come prendersi cura l’uno dell’altro. Sanno che lo scopo della pratica è la libertà, e nient’altro. La ragione per cui costruisco il mio Sangha è l’amore, è la mia aspirazione più profonda. Questa è la strada che intraprendo, la strada della libertà, e dedico il mio tempo e la mia energia alla costruzione del Sangha, dove la radice diventa realtà. Se non c’è fratellanza, la felicità non è possibile. Il segno distintivo di un Sangha autentico è la fratellanza. Chi si unisce a un Sangha non lo fa per accrescere le sue abilità, ma perché vuole avere fratelli e sorelle nella pratica della libertà. Se la pratica è corretta, sviluppa e rafforza la fratellanza. Ed è la fratellanza a sostenerci, aiutandoci a rimanere saldi nella nostra pratica.

Sappiamo che un po’ più lontano c’è un altro Sangha locale e c’è un altro membro dell’Ordine dell’Interessere che sta facendo la stessa cosa che stiamo facendo qui. Durante la settimana, pratichiamo con il nostro Sangha locale. Organizziamo eventi locali – giornate di consapevolezza, brevi ritiri, discussioni sul Dharma, meditazione del tè, meditazioni camminate – tutto a livello locale. Di tanto in tanto poi invitiamo altri Sangha a unirsi a noi per un’attività a livello regionale.

Quindi abbiamo il livello locale e poi quello regionale. E naturalmente, per realizzare gli eventi regionali, uniamo il nostro talento e la nostra esperienza con quelli di altri membri dell’Ordine dell’Interessere, di altri costruttori di Sangha. Tutti possono contribuire e tutti possono imparare molto dalle attività organizzate a livello regionale.

Poi ogni tanto, insieme al nostro Sangha radice, organizziamo attività a livello nazionale. Le attività nazionali possono svolgersi in luoghi come Deer Park, il Green Mountain Dharma Center o Plum Village. Infine, ci saranno attività a livello internazionale. Possiamo incontrare i praticanti di Sidney, della Danimarca, della Germania, dell’Inghilterra e possiamo imparare molto dalla pratica e dalle esperienze altrui.

Ci sono quattro livelli di pratica: locale, regionale, nazionale e internazionale. Bisogna che la felicità sia possibile a livello locale, nella nostra pratica quotidiana. Riconosciamo e prendiamo in considerazione le difficoltà, la sofferenza che si trova in noi e intorno a noi. La nostra pratica non è altro se non occuparsi di quello che c’è… perché la pratica non è una scappatoia dai nostri problemi reali, dalle nostre difficoltà reali, dalle nostre vere sofferenze. La pratica, secondo il sentiero mostrato dal Buddha, è riconoscere la sofferenza così com’è, chiamarla con il suo vero nome, e imparare il Dharma in modo che il Dharma possa alleviare le cause profonde della sofferenza, sempre. Le divisioni in famiglia, la violenza nelle scuole e nella società, sono tutte cose su cui portare la nostra consapevolezza per vedere in profondità la natura della sofferenza, come è nata la sofferenza, come si è prodotta la sofferenza.

Il malessere: la prima nobile verità è questa. La seconda nobile verità è il prodursi del malessere. Si tratta di sviluppare una comprensione profonda e ben chiara di come si produce il malessere. Dobbiamo considerare ogni causa che ha portato alla sofferenza, cose come l’alcolismo e le droghe, l’AIDS, la violenza, la rottura delle famiglie. Dobbiamo esaminare la sofferenza in profondità, per vedere con esattezza quali sono le sue cause. Dobbiamo chiamarle con il loro vero nome. La pratica è comprendere la natura della sofferenza: è la seconda nobile verità. Quando la comprensione della seconda nobile verità è profonda, la via si presenta da sé: la quarta nobile verità, la via che porta alla cessazione del malessere. Grazie alla comprensione della natura del malessere, il sentiero che porta alla cessazione del malessere diviene visibile. La terza verità non è altro che la cessazione del malessere.

Come è stato detto e ripetuto, una volta compresa la seconda nobile verità, la quarta nobile verità si rivela. È il vero Dharma. Il vero Dharma è quello che è tenuto a incarnare chi conduce un Sangha, chi è membro dell’Ordine dell’Interessere. Devi organizzare la tua vita quotidiana in modo tale che possa esprimere la quarta nobile verità: il sentiero, il Dharma vivente.

Se nel Sangha c’è qualcuno che può incarnare il Dharma vivente, questo sarà origine di molta felicità. Il tuo  può essere un Sangha di cinque, dieci, venti, cinquanta persone. Se uno di voi può incarnare con chiarezza il sentiero, il Dharma vivente, è meraviglioso. Allora tutti possono guardare a lui, possono guardare a lei, per praticare. Molto presto sarà tutto il Sangha a portare il Dharma dentro di sé, sarà il Sangha a incarnare il Dharma. A quel punto, il Sangha sarà diventato l’elemento più convincente, il vero Sangha, il Sangha vivente, che ha in sé il Buddha e il Dharma. Un vero Sangha ha sempre in sé il vero Buddha e il vero Dharma.

Quindi, se sei un costruttore di Sangha, assicurati che nel Sangha ci sia qualcuno che possa incarnare il Dharma vivente. Qualcuno che vive in modo tale da rendere visibile il Dharma, non solo il Dharma delle registrazioni audio, dei libri e dei discorsi di Dharma, ma il Dharma che si manifesta nel modo di vivere nel quotidiano.

Per questa ragione, quando pensiamo alla formazione dei membri dell’Ordine dell’Interessere, bisogna ricordare che formazione non significa immergersi negli studi buddhisti, anche se gli studi buddhisti possono essere molto utili. Ma noi cerchiamo qualcosa di più degli studi buddhisti. Al Green Mountain Dharma Center, Sister Annabel offre insegnamento e formazione ai membri dell’Ordine dell’Interessere e a chi pratica nei centri di consapevolezza. Non si limita a offrire discorsi di Dharma. Si pratica la meditazione seduta e camminata, e si sperimentano altre pratiche in modo da poter vedere che il Dharma vivente è qualcosa di più di un insieme di teorie.

Possiamo organizzare corsi di formazione a livello locale o regionale, in modo che i membri  dell’Ordine dell’Interessere possano apprendere, formarsi. Questa possibilità di apprendere potrebbe essere offerta anche ai futuri membri, perché dopo aver praticato per un anno, una persona potrebbe maturare il desiderio di ricevere l’ordinazione per diventare membro della Comunità Nucleo. Se durante questo periodo di un anno non ha avuto la possibilità di formarsi, l’ordinazione non è possibile, perché l’ordinazione si fonda sulla formazione e non sul semplice desiderio di diventare un membro della Comunità Nucleo. Il desiderio va bene, ma non basta. Deve esserci una formazione. Quindi, se sei un membro della Comunità Nucleo, il tuo sentiero è formare i membri del tuo Sangha locale in modo che ciascuno e ciascuna sappia qual è il vero Dharma, la pratica, e come applicare il Dharma nella vita familiare e nella vita sociale. In questo senso il Dharma dovrebbe essere uno stile di vita molto concreto: l’arte di vivere in consapevolezza.

Molti di voi si sono incontrati per parlare di come organizzare un evento a livello regionale. Potrebbe essere un incontro di formazione di sette o dieci giorni rivolto i membri dell’Ordine dell’Interessere e agli aspiranti. Si può chiedere un aiuto a una, due o tre sorelle del Sangha radice. Oppure potete curarvi voi stessi dell’organizzazione, perché tra di voi ci sono membri  dell’Ordine dell’Interessere che sono anche insegnanti di Dharma, e hanno le capacità necessarie per offrire formazione.

Potete sempre invitare alcuni membri del Sangha radice ad aiutarvi e, naturalmente, a livello nazionale il Sangha radice deve essere in qualche modo coinvolto. Ci dovrebbero essere documenti e materiali, in modo che la formazione avvenga in termini molto concreti, in modo che la formazione possa rendere realmente possibile la trasformazione. In linea di principio, il beneficio che dovrebbe essere offerto ai membri  dell’Ordine dell’Interessere dovrebbe essere proprio questo: trasformarsi e guarire nel loro periodo di formazione.

In ogni ritiro di cinque o sei giorni vediamo trasformarsi molte persone, per esempio in quello di sei giorni che abbiamo appena offerto all’Università del Massachusetts, con 850 partecipanti. La qualità del ritiro era molto alta e tutti sono stati davvero bene. I riscontri sulla trasformazione arrivavano ogni giorno: molti, davvero molti casi.

Abbiamo avuto riconciliazioni in famiglia, anche con persone che non erano presenti, grazie a una telefonata. Era palpabile come la stabilità della pratica di alcuni partecipanti fosse d’aiuto per gli altri. Al ritiro c’erano più di 70 monaci, un numero piuttosto elevato. Hanno partecipato anche diversi membri dell’Ordine dell’Interessere e altri praticanti sperimentati. E poi c’erano davvero tante persone nuove alla pratica, che avevano solo letto dei libri e venivano per la prima volta a un ritiro, senza nessuna esperienza di pratica, di vipassana o altro. Non hanno fatto altro che partecipare e sono stati bene, con molta spontaneità, come un ruscello che confluisce felicemente in un grande fiume. Erano persone di diversa estrazione sociale e c’erano un sacco di giovani: 28 giovani hanno preso i tre rifugi. Se parlate con le sorelle e i fratelli che hanno partecipato al ritiro, sentirete molte storie di trasformazione che ci rendono molto felici.

Ricordo che un giorno ho invitato tutti i bambini a venire a sedersi con me sul palco – erano almeno un centinaio – e ho invitato anche tutti gli insegnanti di scuola presenti, un centinaio anche loro. Ho chiesto loro di parlare tra loro delle loro aspettative e delle loro esperienze. È stato meraviglioso.

Molti partecipanti hanno pianto perché ciò che ascoltavano parlava della loro stessa sofferenza, e perché hanno imparato una via d’uscita pragmatica dalla sofferenza. Hanno assorbito tanta energia e innaffiato in sé tanti semi positivi. Molti erano dispiaciuti che il ritiro non durasse più a lungo.

Quindi, a livello regionale la formazione non serve solo ad aiutare gli altri, ma anche ad aiutare noi stessi. Da un ritiro dovremmo uscire rafforzati come praticanti, rafforzati come costruttori di Sangha, rafforzati e più abili come insegnanti di Dharma. È una cosa da organizzare regolarmente.

Quindi, per favore, usate a questo scopo la vostra intelligenza e le vostre capacità organizzative, perché costruire il Sangha è il compito più nobile che ci sia. La cosa più preziosa che possiamo offrire alla nostra società è il Sangha. Quindi tutti devono imparare a essere costruttori di Sangha. Molti monaci, molte monache e molti laici sono insegnanti di Dharma eccellenti, molto abili a insegnare il buddhismo, sia in Vietnam che altrove, ma non sono in molti ad avere l’abilità del costruttore di Sangha.

La mia idea fissa, il mio desiderio è che ogni membro dell’Ordine dell’Interessere impari l’arte del costruttore di Sangha perché costruire il Sangha porta molta felicità. Costruire il Sangha permette di acquisire molti meriti, perché ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno nella nostra società è il Sangha, un luogo aperto a tutti dove tutti possono sentirsi abbracciati e compresi, e imparare a vedere il sentiero dell’emancipazione. Un vero Sangha è ciò di cui abbiamo realmente bisogno, perché un vero Sangha ha sempre in sé il Buddha e il Dharma vivente. È il Dharma vivente a fare del Sangha un vero Sangha, un rifugio vivente per noi e per la nostra società.

Quindi, se avete ancora un po’ di tempo per discutere, per favore, dedicatelo alla formazione e alla costruzione del Sangha.

(tre suoni di campana)

(Trascritto da Kate Atchley, Voto di vera virtù)

Deer Park, Febbraio 2004

Questa settimana molti membri dell’Ordine dell’Interessere hanno scelto di essere qui per il ritiro invernale ed è stata una grande gioia poter partecipare con loro a questo ritiro. Il nostro desiderio era di riunirci e, se possibile, sedere insieme a te. Se volessi dire qualcosa ai membri dell’Ordine, ci piacerebbe ascoltare. Se i membri dell’Ordine dell’Interessere hanno qualcosa da dire, ne hanno la possibilità adesso. Altrimenti, sarà un buon momento per sedersi e scambiarci un sorriso.

(Inaudibile: Thay parla dell’importanza di creare una newsletter dell’Ordine dell’Interessere. Poi della costruzione del Sangha)

THAY: Non c’è bisogno di essere dei leader, dovete essere organizzatori, coordinatori, costruttori di sangha. È questa la missione, il ruolo, il dovere di un membro dell’Ordine dell’Interessere. C’è chi ha ricevuto i Cinque Addestramenti e chi non ha ricevuto i Cinque Addestramenti. Dobbiamo fare in modo che tutti si uniscano alla comunità. Se nel gruppo ci sono buoni praticanti, dovremmo far nascere in loro l’ispirazione a essere dei leader. Dovremmo evitare di essere noi il leader. È la strada migliore. Dovremmo cercare di chiedere a una o due persone di fare da leader, e le persone che scegliamo dovrebbero incarnare la pratica e la gentilezza amorevole.

Quando si legge «Questo è il Secondo Addestramento, abbiamo fatto uno sforzo per metterlo in pratica nelle ultime due settimane?», chi fa la domanda dovrebbe essere una persona che gode del rispetto. Bisogna che chi parla per noi, il nostro portavoce, il nostro membro dell’Ordine dell’Interessere, sia una persona abile. Invitate queste persone a fare delle cose. Puoi essere un buon costruttore di sangha senza essere il leader. Nel sangha monastico ci sono fratelli e sorelle che sono molto importanti pur non essendo l’abate o la badessa o un insegnante di Dharma. C’è chi non ha il titolo di insegnante di Dharma, ma dà un grande contributo. Sono sicuro che questa sia un’opportunità per imparare la pratica. Tutti facciamo degli errori. E impariamo dagli errori. Il fiorire di un Sangha, la felicità del sangha è un frutto molto evidente della nostra pratica. Penso che nel luogo in cui viviamo dovrebbe esserci un giorno di felicità ogni due settimane. Se vuoi essere un vero elemento del Quadruplice Sangha, devi essere una persona onorevole. Se nelle vicinanze ci sono monaci e monache, è un bene. Altrimenti, devi essere tu onorevole come Sangha. Essenziale per il sangha è l’armonia. È più facile con un gruppo di queste dimensioni che con un sangha monastico di 250 persone. Quando diverse centinaia di persone stanno insieme è difficile, ma è possibile.

(Un aspirante chiede di poter essere in contatto via e-mail con gli altri membri, gli viene risposto che è possibile).

MEMBRO OI: Penso che sia importante, quando qualcuno avvia un nuovo Sangha, fin dall’inizio, credo, avere un compagno che lo affianchi, perché può essere una cosa molto impegnativa. Non se ne può fare a meno. Può darti forza. Lo so per esperienza personale.

THAY: È assolutamente cruciale. In un sangha che si riunisce ogni due settimane bisogna davvero coprire ogni aspetto della pratica. La pratica dovrebbe portare fratellanza e sorellanza, e gioia. Se c’è qualche difficoltà tra due membri, sappiamo come contribuire a risolverlo prima di iniziare la recitazione. Prima di iniziare la recitazione dei Cinque Addestramenti, si chiede: «C’è armonia nella comunità?», e se qualcuno dice: «No, non c’è armonia», la recitazione non può proseguire. Ecco perché l’ora e il luogo della recitazione dovrebbero essere annunciati in anticipo. Se un gruppo di persone prende lo stabilisce senza comunicarlo a tutti, questa è una trasgressione dei precetti. Quindi è molto importante che tutti sappiano quale sarà il luogo della recitazione e quando avverrà. Prima si può praticare la meditazione seduta o camminata. Arrivato il momento, dopo qualche canto, il maestro di cerimonia chiede: «Il sangha si è riunito?». Qualcun altro risponde: «Sì, il sangha si è riunito». Poi la seconda domanda: «C’è armonia nella comunità?». Il portavoce dovrebbe rispondere con onestà: «Sì, nella comunità c’è armonia». Poi la terza domanda: «C’è qualche assente che ha chiesto di essere rappresentato e ha comunicato di aver mantenuto i Cinque Addestramenti?» A questo punto si deve lasciare il tempo all’assemblea perché qualcuno possa dire «Sì, il membro del sangha tal dei tali non è potuto venire alla recitazione. Ha chiesto a me, fratello X, di rappresentarlo. Ha praticato bene i precetti». Allora quel membro sarà rappresentato. Il sangha riunito può prendere delle decisioni e quel membro non può dire «Io non c’ero, questa decisione non mi sta bene». Ha chiesto a qualcuno di rappresentarlo. Questa è la pratica raccomandata dal Buddha duemilacinquecento anni fa. Da allora è sempre stato così. Se si segue questo impianto, si può fare da soli. Ci sono molte cose da imparare nella tradizione monastica. Ai tempi antichi, solo i monaci praticavano la meditazione camminata e altre cose del genere. Ora queste pratiche vengono condivise. Quindi la cultura monastica viene condivisa. Questo è un passo nuovo. Il Buddha ne sarebbe molto felice.

Questo modo di organizzare il sangha è molto importante. Certo, in molte culture la gente deve ancora andare al tempio per far recitare gli addestramenti ai monaci. Ma adesso possiamo anche fare da soli. Possiamo chiedere a un membro del Sangha di leggere il testo della cerimonia e di presiedere la cerimonia di recitazione. Naturalmente, ogni tanto in tanto possiamo invitare i monaci a praticare con noi, soprattutto se non abbiamo ancora familiarità con le tecniche della pratica. Ma questo modo di procedere può davvero rafforzare il Sangha e permettervi di offrire un grande contributo al quadruplice Sangha. Perché se la comunità laica pratica bene e felicemente, il Sangha monastico ne trae un grande beneficio. Come sapete, secondo il Pratimoksha [il codice monastico], i monaci non dovrebbero andare su internet da soli. È pericoloso. È come andare da soli al mercato. Devi andarci con un secondo corpo, per proteggerti. Non è un limite per la nostra libertà. È una protezione della nostra libertà. È una protezione della nostra libertà perché ci mantiene al sicuro. Noi vogliamo salvaguardare la nostra libertà. È per questo che ci pratichiamo. Ora avete la possibilità di leggere e studiare il Pratimoksha, il codice monastico. Ora potete riconoscere la differenza tra un buon monaco e uno che non lo è fino in fondo. Potendo guardare i monaci con questi occhi, avete modo di sostenerli meglio.

MEMBRO OI: Caro Sangha, il Sangha in cui pratico è interamente composto da persone molto nuove alla pratica. Nessuno ha ricevuto i Cinque Addestramenti e tutti sono arrivati al Sangha per tramite mio. Sto cercando di farli crescere in modo da poter fare quel passo. Ma sono così all’oscuro del Sangha più esteso. Come posso introdurli in modo tale che a parlare non sia la mia voce, ma quella del Sangha?

THAY: È bene creare un’occasione perché partecipino a un ritiro ed entrino in contatto con il Sangha più esteso, che pratica da molti anni. Sarà un’ispirazione. C’è chi, essendo nuovo alla pratica, non ha molti pregiudizi. Questo è un aspetto positivo. È molto facile piantare buoni semi. Se qualcuno ha già idee e pregiudizi, è molto difficile. È come un terreno nuovo, una nuova terra, dove si possono piantare semi molto buoni. Anche se non hanno ricevuto i Cinque Addestramenti, possono comprenderli, possono recitarli. Non li hanno ricevuti formalmente, ma li ricevono con il cuore e possono praticare come gli altri. Puoi anche proiettare dei video. Anche se il video non può sostituire la realtà, può essere utile.

MEMBRO OI: Caro Thay, stiamo cercando di rafforzare il nostro Sangha. Abbiamo molti membri che hanno esperienza di impegno come attivisti in ambito sociale. Mi chiedo come vi regolate, tu e i monaci, rispetto a questo genere di iniziative di pratica in modo da attenersi ai Quattordici Addestramenti. Per esempio, come vengono condivise le informazioni sulle ingiustizie che possono verificarsi nella comunità, e di cui in qualche modo potremmo occuparci come Sangha? Come viene presa questa decisione? In che modo decidete come affrontare una questione che magari viene segnalata da uno o due monaci a cui sta a cuore?

THAY: Credo che la cosa fondamentale, prima di tutto, sia avere un Sangha stabile. Se nel Sangha non c’è amore e comprensione, non bisognerebbe dedicarsi a un impegno esterno. Se puoi contare su questa stabilità, puoi condividere. Ma prima di arrivare a questo, devi praticare. Poggiando su una comunità felice e stabile, si possono fare molte cose. Se investiamo troppe energie verso l’esterno, ci perdiamo. Se non c’è armonia o felicità nel Sangha, l’impegno non ha più senso, e noi ne siamo ben consapevoli. Ecco perché ci concentriamo prima sulla costruzione del Sangha. Perché quando sei stabile e felice, gli altri cominciano già ad essere felici. Anche se non hai fatto molto, qualsiasi cosa tu dica o faccia avrà un effetto. Anche se fai poco o dici poco, l’effetto sarà maggiore di quello che otterresti facendo molto ma senza avere la felicità dentro di te.

MEMBRO OI: Caro Thay, sappiamo che le circostanze che ti hanno portato qui da noi, a lavorare con noi in Occidente non sono state piacevoli. Vogliamo solo che tu sappia che ti siamo molto, molto grati. Ti vogliamo bene, Thay.

THAY: Come sapete, molti vietnamiti sono stati boat people e molti di loro sono morti. La mia intenzione era di rimanere in Occidente solo per tre mesi, per chiedere la pace. Prima della partenza, il capo della polizia mi ha detto: «Quando vai lì, non chiedere la pace». Sono rimasto in silenzio, perché era esattamente quello che volevo fare. Non ho detto di sì, ma sono rimasto in silenzio. Sono passati 38 anni. Venire qui a condividere il buddhismo in Occidente non era la mia intenzione. È come se il Buddha e i Patriarchi abbiano organizzato la cosa. Ho dovuto obbedire.

Ogni volta che tocco la terra, apro le mie due mani e dico: «Caro Buddha e cari Patriarchi, non ho nulla nelle mie mani. Quel po’ di saggezza che ho, me l’avete dato voi. Non sono altro che il vostro strumento». E mi sento molto leggero, molto libero. Non mi lascio prendere dall’orgoglio e dall’arroganza. Sono molto libero, molto leggero. Faccio sempre così quando tocco la terra. Per questo posso mantenere la mia umiltà, la mia libertà, la mia leggerezza. Penso che possa piacere anche ai miei amici. In questo modo puoi aiutare il Buddha e i Patriarchi ad aiutare molte persone. Credo che i miei allievi, molti di loro, lo sappiano.

Senza i Patriarchi e senza il Sangha, non possiamo fare molto. È come Deer Park. Non era affatto mia intenzione avere Deer Park. In realtà, quando ne ho sentito parlare per la prima volta, non ne ero felice. Non volevo venire qui a vedere il terreno. Non mi interessava. Ma alla fine sono venuto. Penso di aver dovuto obbedire alla decisione presa dai nostri antenati. E quando ti arrendi a questo tipo di accordo, non c’è contesa. Non devi lottare per avere successo. Se le condizioni sono sufficienti, la cosa si realizza. Se le condizioni non sono sufficienti, non ne sei scontento. Puoi mantenere il tuo cuore nella quiete. Non devi combattere, non devi essere disperato. Quando ho ricevuto la notizia che tutta la zona era attaccata dagli incendi, mi trovavo in Francia. Mi hanno riferito che era minacciato anche Deer Park. Ho detto: «Beh, dipende anche dai patriarchi. Se se ne prendono cura, se ne prendono cura loro. Se brucia, praticheremo altrove». Non bisogna farne una mucca.

SORELLA: Un’ultima domanda. Dobbiamo andare a cena.

THAY: Vogliamo restare fino a mezzanotte (ride).

MEMBRO OI: Hai un messaggio da portare al nostro Sangha, quando torniamo a casa?

THAY: Sì. Un Sangha felice è il regalo più grande che puoi fare a Thay, e anche al Buddha. Costruire il Sangha è meraviglioso. Se sei libero e felice, puoi costruire un Sangha.

MEMBRO OI: Ho condiviso la pratica con alcune donne in una prigione del Connecticut. Questo fine settimana stanno tenendo un ritiro. Volevo solo chiederti di mandar loro metta e sostegno. Loro sanno dove mi trovo. È la prima volta che viene organizzato qualcosa del genere.

THAY: Penso spesso agli amministratori delle carceri, perché anche loro soffrono. Se soffrono meno, le persone che stanno dentro il carcere soffrono meno. Ecco perché è importante trovare un modo per aiutarli a soffrire meno. Se hanno più compassione in se stessi, le persone dentro il carcere ne trarranno beneficio. Deve esserci un modo per farlo.

MEMBRO OI: La persona che coordina il progetto, un impiegato della prigione, è disponibile.

Immaginate che le guardie carcerarie insegnino ai detenuti a fare meditazione camminata. Questo renderebbe il Buddha molto felice. Diventerebbe una casa d’amore e di trasformazione. Possiamo nutrire questa speranza? È possibile. Scrivi un articolo. Parla con queste persone, sarai un bodhisattva che si prende cura delle persone che si trovano lì e soffrono. Darai loro la possibilità di soffrire meno e trasformarsi.

Abbiamo organizzato un ritiro difficile a Madison, per gli agenti di polizia. È stato meraviglioso. Abbiamo imparato molto. Immaginate i poliziotti che fanno così (fa un inchino), che fanno meditazione camminata, che inspirano ed espirano. Hanno ricevuto i Cinque Addestramenti e i Tre rifugi in forma non confessionale. Li abbiamo offerti senza termini buddhisti. Il testo è disponibile. Abbiamo chiesto di pubblicarlo su The Mindfulness Bell. La forma è universale.

MEMBRO OI: Volevo aggiungere che la facoltà di diritto di uno degli atenei cittadini ha avviato un programma di pratiche contemplative in collaborazione con alcuni giuristi, e mi hanno chiesto di proporre un programma di meditazione lì. Abbiamo iniziato il 10 settembre 2001, la settimana dell’11 settembre a New York. Quindi è stato molto intenso e ho sentito che molte cause e condizioni si erano riunite perché fossimo lì. Lavorare con le persone che scelgono di impegnarsi con intenzione profonda e dedizione. Ci sono anche persone di colore. Molti sono studenti adulti. Molti sono ex senzatetto o addirittura immigrati clandestini e hanno scelto di iscriversi e studiare legge per tornare nelle loro comunità e dare il loro contributo. Quindi la loro intenzione è molto intensa. La loro compassione è molto intensa. Hanno bisogno di un grande sostegno e quello che hai appena condiviso, Thay, sulla possibilità di offrire la pratica in forma non confessionale è davvero cruciale. Sono persone davvero assetate di pratica. Adorano i precetti. Adorano la pratica. Lottano giorno dopo giorno con molte sofferenze. Quindi rafforzare questo Sangha è una grande speranza. Mi ha dato molto nutrimento. Penso che sia anche una testimonianza del fatto che in questo paese cominciano a riunirsi cause e condizioni in molti settori del diritto e della giustizia.

(La riunione si conclude)

THAY: Ci vediamo per la meditazione camminata. Cammineremo con la luna piena.

EIAB, 11 giugno 2010

Caro Sangha, oggi è l’11 giugno del 2010. Ci troviamo nel Grande Tempio della Compassione dell’Istituto Europeo per il Buddhismo Applicato. L’Istituto è detto anche Istituto Sans Souci, Senza Preoccupazioni. Oggi ascolteremo un insegnamento per il ritiro dedicato ai membri dell’Ordine dell’Interessere. Ieri Thay ha finito di tradurre l’ultima frase del Dhammapada basato sulla versione cinese. Qui molti hanno letto il Dhammapada tradotto dal Pali, e pochissimi tra noi hanno letto il Dhammapada tradotto dal cinese. Il Dhammapada del Canone cinese è più denso del Dhammapada nella versione in Pali. Dice molto di più… ed è più lungo rispetto ai tredici capitoli che abbiamo nella versione in Pali. E il primo capitolo è sull’impermanenza. La frase conclusiva del Dhammapada nel Canone cinese dice così: «Sulla mia testa cominciano a crescere i capelli bianchi, la mia giovinezza è stata rubata… mi è stata portata via. Sembra che siano venuti a dirmelo. E che prima possibile dovrei diventare monaco o monaca». Questa è l’ultima frase. Pensate che dica bene? Chi ha già qualche capello bianco o grigio, alzi la mano. Se non siete diventati monaci o monache, è meglio pensarci in fretta. Una volta diventati monaci o monache, chiedetevi «Sono diventato davvero un monaco o una monaca?» Siamo nati come esseri umani su questa Terra. Questa nascita è una grande fortuna. Abbiamo avuto la fortuna di poterci prendere il tempo per una passeggiata su questa terra. E se non sappiamo come fare per goderci la nostra passeggiata su questa Terra, è davvero uno spreco essere nati in forma umana. C’è una frase che scriviamo in calligrafia, che deriva da una poesia cinese. Tradotta in vietnamita fa così, Thay l’ha tradotta così:

«Se non sai come passeggiare su questa bella Terra Pura, rinascere in forma umana anche per migliaia di vite non può avere alcun significato… nessun beneficio».

Uno dei motivi per cui siamo nati su questo bellissimo pianeta Terra è poter passeggiare, goderci i nostri passi. Anche il musicista… il cantautore Trinh Cong Son ha visto bene, in questo senso. Potersi fare una bella passeggiata sulla Terra è la cosa migliore che ci sia. All’inizio dell’autunno, quando sentiamo gli uccelli, dobbiamo uscire a fare una passeggiata. Basta solo aprire gli occhi… aprire le orecchie, e possiamo entrare in contatto con le meraviglie della vita.

Cantano gli uccelli, cantano gli alberi, sbocciano i fiori, e questa è la nostra Terra Pura. Ma ci siamo fatti rubare la giovinezza. Ci siamo lasciati crescere i capelli grigi e abbiamo sprecato i nostri anni. Quindi ora dobbiamo svegliarci. Dobbiamo imparare a vivere davvero a fondo i giorni che ci rimangono. Altrimenti, se non sappiamo goderci una passeggiata sulla Terra,  è davvero uno spreco. Anche se rinasciamo in forma umana per la decimillesima volta, è come non essere mai nati. È così che inizia, il Dhammapada. Il Dhammapada inizia dicendo: «Svegliati, dovresti sorridere». Abbiamo la gatha: Mi sveglio, sorrido. Ho ventiquattro ore nuove di zecca. Faccio voto di viverle pienamente, guardando alla vita con gli occhi dell’amore». Penso che la traduzione del Dhammapada di Phap Huyen [Uyen?] Thay sia un’offerta al Sangha che pratica. anche la Rete dell’Amore Sensuale è tratta dal Dhammapada. All’età di ottant’anni, il Signore Onorato dal Mondo, trascorreva tutto il tempo che aveva a godersi le sue passeggiate sulla Terra. Andava a sud, andava a nord, andava in tutti i piccoli regni che si trovano in quella parte dell’India. E ovunque andava, ne traeva beneficio… apprezzava la geografia dei luoghi, i bellissimi paesaggi. Insegnava, ma si godeva anche le sue giornate. Godersi le sue giornate e insegnare, erano una cosa sola. Non perdeva il suo tempo. Sapeva che di tempo a disposizione ormai ne aveva molto poco. Quindi considerava molto preziosa la vita che gli rimaneva da vivere. E gli ultimi anni della vita del Buddha sono il periodo in cui si è goduto di più le sue passeggiate sulla Terra. Anche il re Prasenajit è nato lo stesso anno del Buddha. Anche lui aveva ottant’anni come il Buddha. Vide che il Buddha, quando andava in giro camminando da un posto all’altro, stava davvero bene, e volle seguirlo per sentirsi bene anche lui. Così Prasenajit seguì a piedi il Buddha che attraversava il suo regno a piedi insieme ai suoi monaci. Divennero amici molto intimi. Uno era un re del Dharma, l’altro era un re del mondo. Il Buddha era accompagnato dai monaci, il re dalle sue guardie e i suoi attendenti. A volte si incontravano. E accadde che questi due buoni amici si incontrassero per l’ultima volta. Nei Sutra abbiamo una testimonianza di questo incontro. Nel sutra intitolato Ornamento del Dharma, il re Prasenajit esprime parole di lode per il Buddha in presenza di Ananda, che lo ascolta.

La meditazione camminata è una delle pratiche più importanti di Plum Village. Consiste nel fare ogni singolo passo con pace, con gioia e libertà. È la pratica del godersi una passeggiata. Spesso camminiamo come se fossimo inseguiti da qualcuno o qualcosa. Camminiamo e parliamo allo stesso tempo. Non traiamo molto beneficio da ognuno dei nostri passi. Ecco allora che impariamo a praticare la meditazione a piedi per imparare ad assaporare ogni singolo passo. Quando bevi una tazza di tè, puoi apprezzare la tazza di tè, tenere la tazza e sorseggiare ogni goccia di tè con tutta la felicità che hai. C’è chi non sa bere il tè, e lo manda giù come se fosse Coca Cola… chi sa bere il tè prende un sorso alla volta, assapora ogni singola goccia di tè, e così il tè è una bevanda davvero gustosa. A volte abbiamo solo una piccola tazza di tè, ma quella tazza è piena di fratellanza e sorellanza, libertà, risveglio, quel tè ci sveglia, ci dà felicità. Per questo nella nostra tradizione abbiamo la pratica della meditazione del tè, perché la meditazione del tè consiste nell’imparare a bere il tè in questo. Una tazza di tè può regalare molta felicità, molta fratellanza e sorellanza. Puoi goderti una tazza di tè per un’ora intera. Non mandarla giù tutta in una volta. Perché altrimenti bevi come un bufalo… come un bue.

Quando beviamo il tè in questo modo, quando mangiamo in questo modo, assaporiamo ogni boccone di cibo che mangiamo, con leggerezza e felicità, ogni aroma, ogni pezzo di tofu… per trovare la felicità in ogni momento, per trovare la libertà in ogni momento. Il nostro modo di mangiare è molto diverso da quello degli animali. Apprezziamo ogni aroma, ogni verdura, ogni foglia di insalata, ogni pezzo di tofu. Mangiamo ogni boccone per trovare pace e gioia, per trovare libertà, per trovare agio, per trovare fratellanza e sorellanza: abbiamo l’opportunità di praticare in questo modo due o tre volte al giorno. Sedersi e mangiare insieme è una pratica. Ci prendiamo tutto il tempo che ci vuole, non abbiamo fretta di finire. Vediamo che un pasto è un’opportunità di pratica, e mangiamo per essere felici. E anche questa è una passeggiata. Quando abbiamo una coppa di gelato, dobbiamo mangiare in modo che ogni singola cucchiaiata di gelato sia qualcosa che ci piace, qualcosa che porta pace e gioia. In Francia, a volte la pubblicità dello yogurt dice così: Questo yogurt ha un sapore molto buono, mangialo lentamente in modo che duri a lungo. Mange-la doucement… mangialo lentamente in modo che possa durare a lungo. E anche la nostra vita è così, il tempo che abbiamo da vivere bisogna viverlo, assaporarlo. Bisogna godersi ogni singolo momento, assaporare ogni singolo momento. Ogni momento che ci viene dato da vivere, bisogna apprezzarlo come qualcosa di prezioso e viverlo profondamente. Viviamolo come persone libere.

E se volete farlo, dovete esercitarvi facendo affidamento sul Sangha, imparare passo dopo passo. Altrimenti, sprecherete la vostra vita. È stato qualcun altro a rubarvi la vita, la giovinezza? Siete stati voi che ad aver sprecato la vostra giovinezza, voi stessi, perché non sapevate come vivere, non sapevate come apprezzare la vita, e ora avete i capelli grigi. La vecchiaia ci ha raggiunto, e per noi i nostri capelli grigi sono una campana di consapevolezza. E se riusciamo a praticare così… La vita passa in fretta, quindi dobbiamo svegliarci. Viviamo in modo da non avere rimpianti in futuro. Viviamo in modo che ogni momento della nostra vita quotidiana diventi una leggenda per i nostri discendenti. I nostri antenati hanno vissuto così, e ora tocca a noi vivere così. Nel ritiro per i praticanti tedeschi che abbiamo appena offerto, tutti i partecipanti sono stati molto felici. Si sono goduti davvero la meditazione camminata. E quando hanno visto Thay che teneva per mano un bambino… che teneva per mano un bambino su un bel prato verde, con i fiori viola e bianchi, hanno visto che il paradiso è qui, non abbiamo più bisogno di andare da nessun’altra parte. Ogni singolo passo è un piacere, è felicità. Apprezziamo ogni singolo passo, così come apprezziamo ogni singolo sorso di tè o ogni singola cucchiaiata di gelato. Perché avere fretta? Camminiamo in modo che ogni passo sia la felicità, è la pace. Quindi a Plum Village non parliamo mai mentre camminiamo. Parlare e camminare allo stesso tempo è come mangiare e parlare allo stesso tempo. Quando cominci a parlare non ti godi più il cibo, non ti godi più i tuoi passi.

Nel Sangha ci sono persone che sanno camminare senza parlare, che sanno godersi ogni singolo passo. Sono persone che non stanno sprecando il loro paradiso, non sprecano la loro vita. E quando Thay vede un allievo che cammina così è molto felice. Pensa «questa persona è la mia continuazione, questa persona è una continuazione del Buddha». Camminando così, continuiamo il percorso del Buddha, continuiamo il percorso dei nostri maestri ancestrali, continuiamo il percorso di Thay.

[campana]

L’energia dell’abitudine ci porta a perderci. Un momento prima ascoltiamo indicazioni sulla meditazione camminata, su come camminare in consapevolezza, e un momento dopo usciamo e non facciamo altro che camminare e parlare allo stesso tempo, ad alta voce, e perdiamo ogni consapevolezza dei nostri passi. Tra monaci e monache, al ritiro tedesco eravamo più di 140. I monaci e le monache si sono impegnati con tutto il cuore nell’organizzazione del ritiro. E quando hanno visto i partecipanti tedeschi felici della pratica, quando hanno visto la loro trasformazione grazie alla pratica, i monaci e le monache sono stati molto felici.

La felicità che desideriamo per gli altri era diventata qualcosa di reale. Desideriamo essere felici in prima persona, ma quando vediamo la felicità degli altri, questo ci rende davvero felici. La felicità che riceviamo supera quella che offriamo. I monaci, le monache e gli aiutanti laici hanno lavorato con tanto amore. E grazie a ciò a cui hanno assistito, quello che hanno ricevuto è stato più di quello che hanno dato. Hanno ricevuto così tanto dalla felicità dei partecipanti al ritiro. E hanno fatto di tutto: cucinare, fare le pulizie, lavorare sodo. Ma sono stati ben ripagati dalla felicità degli altri. Quando in un ritiro ci sono molte persone che praticano bene, il ritiro ha successo. È una risorsa. Chi è appena arrivato, si vede circondato da persone che camminano con consapevolezza. Ovunque guardi, a destra o a sinistra c’è qualcuno che cammina con consapevolezza. Davanti a lui c’è qualcuno che cammina con consapevolezza, con libertà e pace. Dietro di lui c’è qualcuno che fa passi di libertà e di pace. In un ambiente così, non si può fare a meno di fare progressi, perché si è portati a fare lo stesso. Quando partecipiamo a un ritiro, dobbiamo contribuire al ritiro facendo la nostra parte, con la nostra pratica. Dobbiamo trarre beneficio da ogni singolo momento del ritiro. Dobbiamo sapere come trarre beneficio da ogni singolo respiro, ogni passo, ogni sorriso: è quello che possiamo offrire a noi stessi e a tutti gli altri partecipanti.

Thay Phap An mi ha raccontato la storia del prete che è venuto qui in visita. È rimasto molto colpito, perché ha visto tanti praticanti buddhisti molto silenziosi, molto concentrati. Quando ascoltano l’insegnamento, ascoltano con tutto il cuore. E nella discussione sul Dharma è la stessa cosa, si impegnano con tutto il cuore. Quel sacerdote desiderava davvero che potesse essere così anche nella sua congregazione. Questo non vuol dire che come praticanti buddhisti siamo proprio bravi. Possiamo fare meglio. Possiamo praticare meglio la meditazione camminata. Possiamo mettere in pratica meglio il metodo della consapevolezza del respiro. Possiamo migliorare nella parola amorevole. Possiamo praticare meglio il nobile silenzio. E dobbiamo convenire che i praticanti tedeschi che sono venuti al nostro ritiro hanno praticato con tutto il cuore. Certo, qui avevano il sostegno dei monaci, delle monache e dei laici. Ma in quei cinque giorni hanno davvero apprezzato ogni singolo momento di pratica. Ciascun membro dell’Ordine dell’Interessere, della Comunità Nucleo, sia un pilastro, un’ispirazione. Il colore marrone, la giacca marrone, è simbolo di umiltà. Quando ci mettiamo la giacca marrone, deve essere chiaro per noi che quello che stiamo mostrando è che siamo persone umili. Perché il marrone in Vietnam è il colore del contadino, il colore dell’umiltà. Il marrone è anche il colore della forza, di un grande potere, di una grande forza spirituale, la forza della pace, che è molto silenziosa, ma molto potente. E quando indossiamo la veste marrone come monaci o monache, dobbiamo manifestare questo stesso spirito, la virtù dell’umiltà. Non diciamo di valere più di qualcun altro, di essere migliori, di avere più autorità, più potere. Abbiamo una forza spirituale, e la forza spirituale è molto silenziosa, non fa alcun suono.

È il silenzio del colore marrone. E i laici, quando indossano la giacca marrone, la indossano ugualmente in questo spirito, lo spirito dell’umiltà, lo spirito del potere del silenzio. In traduzione diciamo “Ordine dell’Interessere”. Ma in vietnamita è “tiep hien”. La parola “tiep” ha diversi significati. Il primo è “accettare, ricevere”. Riceviamo qualcosa. Che cosa riceviamo e da chi lo riceviamo? Prima di tutto, riceviamo dai nostri antenati le cose belle e buone: riceviamo la comprensione e la visione profonda dei nostri antenati, la virtù dei nostri antenati. Riceviamo dai nostri antenati spirituali la meraviglia del Dharma, il seme della visione profonda. È questa la risorsa che riceviamo.

Perciò, la prima cosa che deve fare un membro dell’Ordine è ricevere ciò che gli antenati hanno trasmesso. E a volte loro trasmettono, ma noi non abbiamo la capacità di ricevere la trasmissione. Per esempio, Thay invita la campana. A volte Thay si siede e invita la campana. Possiamo imparare da come Thay invita la campana. Ma a volte passati due o tre anni ancora non sappiamo invitare la campana correttamente: è ancora molto aspra, bloccata. Rispetto a come invita la campana Thay, sembra in sordina. Thay invita la campana in modo che si diffonda verso il cielo. Quando altri invitano la campana, è come in sordina, bloccata, aspra, stridente. Non eravamo presenti per ricevere la trasmissione. Qualcuno che pratica abilmente, Basta guardare Thay o un fratello anziano o una sorella anziana, qualcuno che ha abilità nella pratica, e allora sapremo come si fa a invitare la campana. Un monaco, una monaca dovrebbe esserne capace, un laico dovrebbe esserne capace. Quando siamo davvero presenti, quando siamo vicini a Thay e ai fratelli e alle sorelle più anziani nella pratica, possiamo imparare molto da loro, possiamo ricevere tanto da loro in poco tempo.

Il modo in cui Thay cammina, sta in piedi, stabilisce un contatto, è questa la trasmissione di Thay. Non dovete fare altro che osservare, così potete ricevere. Per ricevere la trasmissione dal Buddha e dagli antenati, da chi ci ha preceduto, basta osservare. E a volte c’è chi arriva dopo di noi ma ha ricevuto la trasmissione prima di noi, e a volte dobbiamo imparare da chi è più giovane di noi, dobbiamo ricevere la trasmissione da chi è più giovane di noi. E ciò che riceviamo è il nostro patrimonio, dobbiamo ricevere il nostro patrimonio. Questo patrimonio non è fatto di terra, non è fatto di denaro, non si tratta di gioielli: è un patrimonio di vero Dharma. Allora dobbiamo chiederci: quanto ho ricevuto? Gli antenati vogliono davvero trasmettere, vogliono davvero dare. Ma se noi non riceviamo – non vogliamo ricevere o non abbiamo la capacità di ricevere – in qualche modo viene dato molto, ma si riceve molto poco – se non riceviamo quello che ci viene offerto, per chi lo offre è una delusione. Se non accettiamo il regalo di qualcuno, non siamo gentili con quella persona. Quindi imparare è una questione di ricezione. Dobbiamo essere lì a ricevere, a imparare. E quando abbiamo ricevuto, possiamo continuare la linea ancestrale. Quindi il primo significato di “tiep” è ricevere. Una volta che abbiamo ricevuto, pratichiamo utilizzando ciò che abbiamo ricevuto, e così facendo lo nutriamo. E una volta che l’abbiamo ricevuto la trasmissione, possiamo essere una continuazione. Continuazione di chi? Continuazione del Buddha, continuazione dei maestri ancestrali. Continuazione di Thay. Continuazione degli antenati spirituali.

Un figlio leale nei confronti dei genitori o dei nonni è un figlio che sa ricevere l’indirizzo dei genitori. L’allievo leale nei confronti del suo insegnante è quello che è in grado di continuare il suo maestro. Dobbiamo ricevere l’aspirazione e la pratica del Buddha, dei maestri ancestrali e del nostro maestro in questa vita.

Il terzo significato di “tiep” è quello di “essere in contatto”. Il primo significato è ricevere, il secondo è continuare, il terzo è essere in contatto, stabilire una connessione. Con cosa dobbiamo essere in contatto? Prima di tutto, dobbiamo essere in contatto con la meraviglia del momento presente, la meraviglia della vita che è presente in noi e in ciò che ci circonda. Per essere in contatto con la vita, dobbiamo essere presenti. Gli uccelli cantano, il vento risuona tra gli aghi di pino. Altrimenti, se non siamo in contatto, la nostra vita è sprecata. Quando siamo in contatto in questo modo, ne siamo nutriti, ci trasformiamo, cresciamo, maturiamo. Essere in contatto qui significa essere in contatto con la nostra sofferenza… con la sofferenza. La sofferenza nel nostro corpo e nella nostra persona, e la sofferenza nel nostro ambiente, nella nostra famiglia, nella nostra società. Essere in contatto in questo modo, significa comprendere la sofferenza, la sofferenza nostra e quella della nostra società. Allora sapremo cosa fare e cosa non fare per poter trasformare questa sofferenza.

Da un lato, dobbiamo essere in contatto con ciò che è meraviglioso, perché questo ci nutre. Dall’altro, dobbiamo essere in contatto con la nostra sofferenza, in modo da poter comprendere, amare e trasformare. È questo che si intende con la parola “tiep”.

[campana]

Essere in contatto [tiếp xúc], continuare [tiếp tục], ricevere [tiếp nhận]: queste tre espressioni vengono tutte da tiếp.

E la parola hiện, la seconda parola, prima di tutto significa qualcosa che è presente, che è qui, nel momento presente. Che cosa è presente? Ciò che è presente è la vita. A essere presente è il paradiso. A essere presente è la nostra persona. Ed essere in contatto significa essere in contatto con ciò che accade, in questo momento. Hiện significa ciò con cui possiamo entrare in contatto con i nostri sensi, dṛṣṭi. Dṛṣṭi a volte viene tradotto come ciò che è percepito, con il termine kiến, che significa “percepire”, e a volte come hiện che significa ciò che sta accadendo ora. L’espressione kiến phap [?] significa “ciò che possiamo percepire ora”, nel momento presente. Cos’è che vediamo ora? Il Sangha, i pini, le gocce di pioggia, queste sono le cose con cui siamo in contatto. È la sofferenza nella nostra vita in questo momento, sono le cose che percepiamo adesso quelle con cui dobbiamo essere in contatto. Non possiamo rimanere nella torre d’avorio dei nostri sogni, delle nostre divagazioni intellettuali, dei nostri sistemi di pensiero. Dobbiamo essere in contatto con la verità, la meraviglia della verità.

E grazie al fatto che siamo in contatto con tutto ciò che sta realmente accadendo, possiamo praticare il cosiddetto dṛṣṭa-dharma-sukha-vihāra. È la porta del Dharma di Plum Village: dimorare in pace, felici nel momento presente. La parola hiện significa “ora”, “la realtà ora”. E hiện significa anche “realizzare”, “mettere in pratica”, rendere qualcosa reale, concretizzare qualcosa, far sì che qualcosa ci sia davvero. Per esempio, il fatto che realizziamo la pratica, che poi è anche quello che si intende con hiện thực. “Realizzare” nel senso di “realizzare la pratica”. Il nostro sogno… il nostro ideale di vera libertà: non vogliamo vivere una vita in catene, una vita di schiavitù. Vogliamo essere liberi. Solo se siamo liberi possiamo essere realmente felici. Quindi quello che vogliamo è rompere le reti e le prigioni che ci impediscono di essere liberi. E queste sono la nostra passione, la nostra infatuazione, il nostro odio, la nostra gelosia. Non vogliamo rimanere intrappolati in reti come queste, che ci immobilizzano. Vogliamo essere liberi da tutto questo.

Vogliamo essere come il cervo che si libera dalla trappola e può correre liberamente. Allo stesso modo, il monaco o la monaca è come un cervo che non viene catturato da nessuna trappola, che sa evitare tutte le trappole, e sa saltare e correre in qualsiasi direzione. C’è un sutra che parla dei monaci che vivono nella foresta. Sono molto felici. Praticano la condivisione sul Dharma e la meditazione e vivono nella foresta per tre mesi, in ritiro. Passati tre mesi, alcune persone che vivono nelle vicinanze vanno nella foresta, e vedendo che i monaci sono andati via si mettono a piangere. Qualcuno chiede: “Perché stai piangendo?”. E loro rispondono: “Perché negli scorsi tre mesi qui c’erano dei monaci che praticavano. Facevano meditazione seduta, discussioni sul Dharma, mangiavano in silenzio, ed era meraviglioso, era una tale felicità, e ora se ne sono andati via tutti. Dove saranno andati?” E l’altro dice: “Sono andati a Koshala, sono andati a Rajagrha, sono andati a Vaishali. Sono persone libere. Sono come cervi che hanno superato ogni trappola e possono andare liberamente nelle quattro direzioni. Questa è la loro libertà”. È un sutra molto breve. Ci sono le due frasi che dicono: “come cervi che hanno superato ogni trappola, sono liberi di andare dove vogliono”.

E thực hiện significa “realizzare”. Non nel senso di realizzare un edificio o un’istituzione, anche se fosse l’EIAB. Non è questa la realizzazione più importante. Qui si tratta della realizzazione della pratica. E questo è lo scopo, la direzione che va presa da un monaco, da una monaca o da un laico. Come monaco o monaca, come laico, siamo tutti discepoli del Buddha. Non vogliamo vivere una vita di schiavitù. Vogliamo essere liberi.

Quindi dobbiamo fare pratica. E il valore di un praticante è la pratica quotidiana… che dà la libertà al praticante. Non ci facciamo prendere dalla fama, non ci facciamo prendere dal profitto, non ci facciamo prendere da nulla… da una posizione… non stiamo cercando di avere una posizione nella società, un’autorità, un potere. Quello che stiamo cercando è la liberazione, la libertà. E questa è la realizzazione. Quindi, hiện significa realizzare. C’è un’altra traduzione possibile, “materializzare”, cioè concretizzare qualcosa, renderlo tangibile. Ma qui “materiale” non esprime l’elemento più importante.

Un altro significato di hiện, il terzo, è anche “manifestazione”, “manifestare”.

[segue una lunga pausa]

Possiamo aggiungere ancora un altro significato della parola hiện. Significa rendere appropriato, adeguato al tempo, adatto alla nostra società qui e ora. Significa aggiornare, significa rendere adatto al tempo e al luogo. Si può tradurre con “attualizzare”. Ma con tutti i significati che hanno queste due parole, tiếp hiện, come possiamo tradurle con una o due parole in un’altra lingua? Non ci resta che imparare il vietnamita, e poi quando le traduciamo diciamo solo “Ordine dell’Interessere”. Chi non parla il vietnamita, deve trovare un modo per capire che cosa significano queste due parole, che una radice cinese. E se conosciamo il significato di queste due parole, sappiamo qual è il fondamento dell’Ordine dell’Interessere e conosciamo la direzione della pratica dell’Ordine dell’Interessere.

[Thay chiede se può cancellare la lavagna]

Così, grazie a questi significati, possiamo comprendere che cosa si intende per buddhismo impegnato, buddhismo che entra nel mondo. L’espressione “entrare nel mondo” [VN giup the?] è scritta così. Entrare in vita. Non è il buddhismo del monastero. Un monastero non è una realtà tagliata fuori dalla vita. Un monastero va visto come un vivaio dove possiamo mettere a dimora le nostre piantine. E quando quelle piantine sono diventate abbastanza forti, dobbiamo tirarle fuori e piantarle nella società. E il buddhismo c’è grazie alla vita. Non si può dire che la vita c’è grazie al buddhismo: il buddhismo c’è grazie alla vita. Se non ci fosse la vita, non ci sarebbe bisogno del buddhismo. Il motivo per cui abbiamo il buddhismo è perché il mondo ha bisogno del buddhismo. Quindi il monastero, il nostro centro di pratica, va visto come un vivaio in cui ci sono le giuste cause e le condizioni necessarie per far maturare le piantine. E una volta che sono diventate abbastanza forti, vanno portate fuori e piantate nel mondo, nella società. Servire la società, ecco che cosa intendiamo per buddhismo impegnato.

Quando ancora siamo nel monastero, abbiamo già l’intenzione di andare nel mondo. Ci stiamo preparando a portare qualcosa nel mondo. Così, la nostra formazione e la nostra pratica nel monastero è la preparazione per andare nel mondo.

In cinese non c’è questa espressione [VN nhu the?] “ciò che entra nel mondo”. C’è l’espressione [VN: nhung nhang nhang Phat nham] “Buddhismo nella società”: il significato è lo stesso di “buddhismo impegnato”. Dal 1930 in poi, cioè ottant’anni fa, c’è stato un movimento buddhista che si chiamava “portare il buddhismo nel mondo”, il buddhismo impegnato. In Vietnam si cominciava già a parlare di portare il buddhismo nel mondo. Succedeva già nel 1930, se non prima. E crescendo, Thay è stato influenzato da questo tipo di buddhismo. Già a dieci anni era influenzato da questo tipo di buddhismo. Andava a scuola, leggeva il giornale. Sapeva che in passato il buddhismo aveva svolto un ruolo molto importante nel riportare la pace e consolidare il paese, rendendolo più forte. Ha studiato la dinastia di Ly e la dinastia di Tran, e ha visto che a quei tempi il buddhismo prosperava e che tutti i re erano dei praticanti buddhisti. E quella era la vita spirituale, la forza spirituale, il corpo di un popolo intero, la pratica di un popolo intero. Non solo i re della dinastia Ly erano davvero buoni praticanti, ma anche i re della dinastia Tran erano davvero buoni praticanti. Il primo re, Tran Thai Tong, nonostante fosse un re, un politico, e avesse tanti problemi da risolvere, praticava la meditazione e il ricominciare daccapo: praticava sei volte al giorno il ricominciare daccapo. Qui abbiamo solo una recitazione del sutra al giorno, due se siamo fortunati. Il re Tran Thai Tong appena ventenne aveva già una profonda aspirazione e un percorso di pratica. Aveva sofferto, aveva sofferto molto. Ed era stato in grado di superare la sua sofferenza.

E poi ha praticato fino a incontrare il successo, e ha praticato molto bene, e ha scritto libri sul buddhismo che sono stati tramandati fino a noi. Ha praticato i koan [giapponese, in cinese kung an: nella tradizione zen, enigma paradossale proposto dal maestro al discepolo per spiazzarne la mente razionale e avvicinarlo all’intuizione della realtà assoluta.], e il dhyana [“meditazione”, parola sanscrita da cui ha avuto origine il termine giapponese “Zen”]. E la sua opera intitolata Ricominciare daccapo sei volte mostra come a palazzo, pur essendo un re che governava il paese, riusciva praticare sei volte al giorno l’offerta dell’incenso, il toccare la terra, e la meditazione seduta. Praticava ogni volta per venti minuti e poi continuava a governare il paese. Ora, non so se il presidente Obama può fare lo stesso. Non so se qui possiamo fare lo stesso. Perché è la nostra vita spirituale a nutrirci e renderci forti, a dare forza a un governante o a un politico. Non dovremmo dire: “Oh, sono troppo occupato, non ho tempo per sedermi a meditare, o per la meditazione camminata”. Se può farlo un re, non abbiamo più la scusa del troppo lavoro, del poco tempo per praticare.

Il buddhismo impegnato di cui parliamo non è una pratica facile. E c’è da molto tempo. Non è nato nel 1930, è nella nostra tradizione da centinaia di anni, da millenni. Noi siamo la continuazione, non siamo un nuovo movimento. Siamo solo una continuazione. E abbiamo opere come… libri come Buddhismo Oggi, Attualizzare il Buddhismo, Portare il Buddhismo nel mondo. E potremo comprendere il significato di questi libri di Thay, che sono stati pubblicati in vietnamita, quando capiremo che cosa si intende per tiếp hiện. E il nostro percorso è molto semplice: dal buddhismo impegnato andiamo verso il buddhismo applicato.

Ecco che abbiamo un’altra parola, non solo buddhismo impegnato. Il buddhismo impegnato porta a qualcosa di molto vicino che chiamiamo buddhismo applicato. Il termine “applicato” proviene da un contesto secolare, si parla di scienze applicate o di matematica applicata. È un termine molto diffuso. Quando diciamo che parliamo dei Tre Gioielli, il Buddha, il Dharma e il Sangha, quando offriamo un discorso di Dharma parlando dei Tre Gioielli, che cosa intendiamo per Buddha, Dharma e Sangha, perché li chiamiamo così, “i Tre Gioielli”? Dobbiamo mostrare a chi ci ascolta come si può applicare l’insegnamento dei Tre Gioielli. Al ritiro tedesco, abbiamo offerto un insegnamento su come applicare gli insegnamenti dei Tre Gioielli. Come possiamo praticare il rifugio nei Tre Gioielli? Perché recitare “prendo rifugio nel Buddha”, Buddhaṃ śaraṇaṃ gacchāmi non è prendere rifugio. È solo proclamare, annunciare che stai prendendo rifugio. Ma devi anche generare l’energia della concentrazione, della consapevolezza e della visione profonda. E quando ti protegge quell’energia, allora sei protetto dall’energia dei Tre Gioielli. E quando pratichiamo “torno all’isola in me, prendo rifugio in me stesso” dobbiamo praticare il respiro in modo tale da generare l’energia della consapevolezza, della concentrazione e della visione profonda. “Retta consapevolezza è il Buddha, che irradia luce lontano e vicino. Il respiro è il Dharma, che protegge il corpo e la mente. I cinque skandha sono il Sangha che coopera con diligenza”. Quando pratichiamo così, generiamo l’energia del Buddha, del Dharma e del Sangha. Allora siamo davvero protetti dai Tre Gioielli. È la situazione più sicura in cui ci si possa trovare.

Quando siamo a corto di idee, quando non sappiamo cosa fare, è il momento giusto per prendere rifugio. Dobbiamo prendere rifugio nell’energia dei Tre Gioielli. E come membri dell’Ordine dell’Interessere, dobbiamo avere una pratica stabile, in modo tale che quando abbiamo delle difficoltà, quando siamo a corto di idee, quando dobbiamo agire in fretta, sappiamo cosa fare per recuperare la nostra equanimità, il nostro equilibrio, la nostra libertà, la nostra stabilità. Uno dei metodi possibili è prendere rifugio nei Tre Gioielli. Prendere rifugio nei Tre Gioielli è una pratica. Non è un annuncio. Non è una questione di fede o di credenze, non è una professione di fede. Quando prendiamo rifugio nell’energia dei Tre Gioielli ritroviamo la stabilità, ritroviamo la chiarezza, e allora sappiamo cosa fare e soprattutto sappiamo cosa non fare. Ci mettiamo in salvo, al sicuro: il buddhismo applicato è questo. Se non fai altro che parlare del buddhismo ma non sai applicarlo, è solo teoria.

Ora nelle università in Occidente ci sono lauree e dottorati in buddhismo. Gli studi buddhisti di questo genere non sono studi buddhisti applicati. Si può imparare alla perfezione il pali, il sanscrito, il tibetano e i vari insegnamenti dei due canoni. Eppure questo non è buddhismo applicato. Perché chi ha una laurea in studi buddhisti, o un dottorato in studi buddhisti, hanno delle difficoltà, non sanno cosa fare, e il loro buddhismo non li aiuta. Il tipo di buddhismo che vogliamo studiare qui è il buddhismo che ci aiuterà quando ne avremo bisogno. Quando insegniamo le Quattro Nobili Verità, il Nobile Ottuplice Sentiero, i Cinque Poteri, le Cinque Facoltà, i Sette Fattori dell’Illuminazione, tutti questi insegnamenti devono essere applicati nella nostra vita quotidiana. Non dovrebbero essere una teoria. Possiamo benissimo insegnare il Sutra del Loto o l’Avatamsaka Sutra, è molto interessante, possiamo perfettamente analizzare il Vajracchedika Sutra, ma forse sono solo parole, solo parole per soddisfare il nostro intelletto. Dobbiamo chiederci: come possiamo applicare il Sutra del loto per risolvere le nostre difficoltà, la nostra disperazione, la nostra sofferenza? Come possiamo applicare il Vajracchedika Sutra per risolvere le nostre difficoltà? Questo è quello che intendiamo per buddhismo applicato.

L’idea del buddhismo applicato è contribuire al buddhismo impegnato. Nelle università è qualcosa di molto teorico, molto astratto. Non è la pratica su cui faceva affidamento il Buddha. Dobbiamo imparare il buddhismo applicato. Lo studiamo e lo mettiamo in pratica allo stesso tempo. Se sei un monaco o una monaca insegnante di Dharma, devi offrire il Buddhismo applicato. E la tua vita deve essere un esempio degli insegnamenti. Se insegni, non insegni altro se non quello che pratichi tu stesso. Se sei un insegnante di Dharma laico o un aspirante laico insegnante di Dharma laico, è lo stesso. Non studiamo per poter vantare le nostre conoscenze in materia di buddhismo. Quando guidiamo una condivisione sul Dharma, quando offriamo un discorso di Dharma, non si tratta di fare sfoggio delle nostre conoscenze sul Buddhismo. Parliamo, insegniamo solo le cose di cui abbiamo una pratica reale. Se insegniamo la meditazione camminata, dobbiamo praticarla con successo, almeno in una certa misura. Altrimenti, non dovremmo proprio… non dovremmo ancora insegnarla. Si chiama insegnare attraverso la vita, insegnare attraverso la tua stessa persona. Ci sono persone che non hanno bisogno di offrire discorsi di Dharma, non gli piace offrire discorsi di Dharma. Ma sono persone che possono essere ottimi insegnanti di Dharma, perché quando camminano, stanno in piedi, si siedono, si sdraiano, sono in contatto con il Sangha. Sono sempre in armonia, in pace, gioiosi, aperti. Questo è un discorso di Dharma vivente. E nel Sangha queste persone sono dei gioielli preziosi. Non sono solo monaci e monache. Ci sono anche dei laici che praticano molto bene, e in modo molto silenzioso.

Nella storia del buddhismo in Vietnam ci sono laici così. Sono laici, ma godono di molto rispetto da parte dei monaci e delle monche. Per esempio il laico Fiu Chu [?] che ha redatto il dizionario sino-vietnamita, o Cu Shi Tam [?]. Praticano con molta stabilità… hanno praticato nel passato con molta stabilità. Ora sono morti. Sono saliti sul trono del Dharma per offrire insegnamenti ai monaci e alle monache, ma lo hanno sempre fatto con molta umiltà. Quando Le Lien Tam [?] andava a fare un discorso sul Dharma, si metteva la veste grigia, poi toccava la terra davanti ai monaci e alle monache, e poi faceva il suo discorso. E i monaci e le monache lo rispettavano molto. Nel nord, nel sud e nel centro del Vietnam ci sono laici così. E sono laici che godono davvero di molto rispetto da parte dei monaci e delle monache. Non perché sono ricchi, perché hanno potere, ma perché la loro pratica è davvero stabile, e hanno anche conoscenze molto solide in materia di buddhismo. E fanno quello che insegnano. In linea di principio, non c’è nessun ostacolo, nessuna ragione per dire che i monaci, le monache e i laici non debbano praticare insieme, non debbano fare le stesse pratiche insieme.

[campana]

Poiché abbiamo il compito di portare il buddhismo nella vita, di rendere il buddhismo appropriato, applicato, utilizzabile in ogni situazione, abbiamo davvero bisogno di insegnanti di Dharma. L’Ordine dell’Interessere è una mano, un braccio, un braccio, che si estende molto lontano nel mondo. Anche i monaci e le monache vanno in giro per il mondo. Ma non c’è un numero sufficiente di monaci e monache per portare aiuto lì dove è necessario. Bisogna che ci sia un ritiro in ciascun paese europeo, almeno una volta all’anno. Se dovessimo andare incontro alle esigenze di tutti i paesi europei, non rimarrebbe più nessuno a praticare a Plum Village. Abbiamo bisogno di forza nel nostro territorio, abbiamo bisogno di un Sangha forte nel nostro territorio, a Plum Village. Possiamo inviare un certo numero di persone a insegnare, ma dobbiamo avere la nostra radice a casa. Lo stesso vale per l’EIAB. Ha bisogno della forza del quadruplice Sangha, che sia sempre qui tutto l’anno come risorsa per organizzare ritiri e corsi altrove, inviando un certo numero di persone. Quindi il numero di monaci e monache dell’Ordine dell’Interessere non è sufficiente.

Nell’Ordine dell’Interessere abbiamo bisogno anche dei laici. E i membri laici dell’Ordine sono la longa manus del quadruplice Sangha che si estende alla società. Abbiamo bisogno di migliaia di  membri laici dell’Ordine per compiere questo lavoro, per insegnare, portare gli insegnamenti nel mondo. E naturalmente non siamo come i professori universitari. Facciamo noi il lavoro, organizziamo la pratica, e dobbiamo essere il modello della pratica, dobbiamo padroneggiare le porte del Dharma del Buddhismo applicato. Dobbiamo studiare, e dobbiamo essere felici di praticare la meditazione seduta, felici quando pratichiamo la meditazione camminata, felici quando pratichiamo il nobile silenzio. Dobbiamo avere la capacità di organizzare un Sangha locale dove fratelli e sorelle vivono felici insieme.

Ad esempio, a Monaco di Baviera c’è un Sangha, a Dortmund c’è un Sangha. Come può esserci fratellanza nel Sangha di Monaco di Baviera? Come può essere una fonte di fiducia per chi vive lì? Come membro dell’Ordine dell’Interessere a Monaco di Baviera, siamo tenuti a occuparci di questo. Non è una questione di avere autorità o non avere autorità, non è una questione di essere un insegnante di Dharma o non essere un insegnante di Dharma. Il punto è che a Monaco di Baviera c’è un Sangha che pratica felicemente, e questa fratellanza e questa sorellanza si diffondono in tutto il paese. A Dortmund è lo stesso. Non è una sola persona ad aver costruito il Sangha di Dortmund [?], e quando si parla del Sangha di Dortmund tutti si commuovono, perché lì vivono come fratelli e sorelle della stessa famiglia. Nessuno si prende un’autorità maggiore degli altri, tutti praticano la parola amorevole, e tutti quelli che sentono parlare del Sangha di Dortmund  vogliono andarci per partecipare alla meditazione seduta e alla meditazione camminata. Abbiamo bisogno di Sangha come quelli di Francoforte, di Bruxelles, di Liegi, di Amsterdam o di Parigi. E chi lo farà? I membri laici dell’Ordine. I monaci e le monache li sosterranno. A volte vanno e partecipano. Ma sono davvero i laici a doverlo fare. E con la nostra giacca marrone, che rappresenta la nostra umiltà, che rappresenta il potere del nostro silenzio, dobbiamo costruire un Sangha lì dove ci troviamo, un Sangha in cui non c’è competizione per l’autorità o per il potere, dove c’è fratellanza e sorellanza, dove ci guardiamo l’un l’altro con gentilezza amorevole. È una cosa che possiamo fare. È una cosa che sta facendo il Sangha dei monaci e delle monache. E forse loro [chi?] possono farlo meglio.

Ma il corpo del Sangha dei laici… è una cosa che possono fare meglio [?]. E se siamo in armonia gli uni con gli altri, se abbiamo fratellanza e sorellanza, possiamo farlo. E il profumo del nostro Sangha si diffonderà lontano, e Thay sarà pervaso da quel profumo. Questo è il nostro lavoro. E quando il Sangha laico dell’Ordine è felice, e può lavorare in armonia con il Sangha monastico, allora il lavoro con il Sangha monastico sarà fatto davvero con molta armonia e facilmente. E chi ha le capacità, chi ha le abilità, chi ha le virtù sarà riconosciuto dal Sangha, e gli verrà chiesto di fare il lavoro che il Sangha ha bisogno che faccia. Tra i laici ci sono insegnanti di Dharma e ci sono aspiranti insegnanti di Dharma che stanno facendo molto bene. Non voglio dire i loro nomi, ma sono piuttosto silenziosi. Organizzano ritiri, conducono giornate in consapevolezza, insegnano davvero bene, non provocano conflitti e dispute, e sono in grado di aiutare molte persone.

Spero che in futuro saremo in grado di organizzare ritiri, ritiri lunghi per i membri dell’Ordine, in modo che i membri dell’Ordine possano rafforzare la loro pratica, rafforzare le loro aspirazioni, rafforzare la loro felicità e adempiere all’obbligo che ha trasmesso loro il Buddha. Dobbiamo riceverlo e dobbiamo realizzarlo. È questo che si intende per tiếp hiện, rendere una realtà. Se il nostro Sangha in Occidente non è ancora un luogo dove c’è amore tra le persone, allora non abbiamo ancora avuto successo. Chi si assume la responsabilità di rendere il Sangha un Sangha meraviglioso, dove c’è fratellanza e sorellanza, degno di essere chiamato “Sangha”? Siamo noi e soltanto noi a poterlo fare, come membri dell’Ordine dell’Interessere nel nostro Sangha locale. Non dovremmo dire “quella tale persona è fatta così, e non ci riesco a causa di quella persona”. Dobbiamo dire “a causa mia, la mia pratica non è molto buona, perché non ho abbastanza umiltà, perché in me il potere del silenzio non è abbastanza forte, per questo non ci riusciamo”. Lo stesso vale per il Belgio, lo stesso vale per l’Inghilterra, lo stesso vale per l’Italia,  lo stesso vale per l’Olanda. Il nostro compito è continuare a ricevere, essere in contatto, al meglio delle nostre capacità, e realizzare la trasmissione del Buddha.

L’Ordine dell’Interessere ha molte altre cose da fare. Bisogna che l’Ordine di Interessere realizzai la pratica, che faccia maturare la pratica. Lo Statuto dell’Ordine dell’Interessere e i Quattordici Addestramenti dell’Ordine dell’Interessere devono essere rivisti. Tutte le bellezze dei Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza sono state incluse anche nei Cinque Addestramenti alla Consapevolezza. Ma i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza non hanno assorbito tutte le cose buone dei Cinque. I Cinque adesso sono meravigliosi. Per rivedere i Cinque Addestramenti alla consapevolezza ci sono voluti due anni. Anche i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza possono essere migliorati. Sono già buoni, ma possono essere migliorati. Per esempio, il Quarto, che riguarda la sofferenza e la capacità di affrontare la sofferenza. Essere in contatto con la sofferenza, è questo il punto… essere in contatto…

Abbiamo molte cose da fare. E anche questo lavoro di revisione dei Quattordici Addestramenti alla consapevolezza fa parte della nostra pratica. per fare questo lavoro, per rivedere i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, abbiamo bisogno di una commissione di ricerca. Diamo molto valore ai Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, ma possono essere migliorati. “Consapevoli che guardare in profondità ed essere in contatto con la sofferenza può aiutarci a sviluppare la nostra compassione e a trovare vie d’uscita dalla sofferenza, siamo determinati a non chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza o evitarla”. In vietnamita è molto più denso: “Ci impegniamo a trovare il modo, anche attraverso contatti personali, di aiutare chi soffre, a stare con chi soffre anche servendoci di strumenti audio e video. Così manteniamo sempre la nostra volontà di risvegliarci, e che anche gli altri possano risvegliarsi, alla verità della sofferenza nel mondo intero. Sappiamo che la Quarta Nobile Verità è la via d’uscita dalla sofferenza. Sappiamo che proviene dalla Prima Nobile Verità, e facciamo voto di utilizzare sempre la sofferenza e di trasformarla in pace e gioia”.

Quindi si parla delle Quattro Nobili Verità. Si dice che se non comprendiamo la sofferenza, la radice della sofferenza, non siamo riusciti a vedere il cammino che ci porta fuori dalla sofferenza e a porre fine alla sofferenza. Questo è l’insegnamento delle Quattro Nobili Verità, che è stato tradotto in questo precetto, il quarto precetto. Il punto debole di questo precetto… o di questo addestramento alla consapevolezza, è che quando lo si recita bisognerebbe vedere questo. Il difetto di questo addestramento della consapevolezza è il punto dove dice: “Essere in contatto con la sofferenza”: non parla della nostra sofferenza, più che altro parlare della sofferenza degli altri. Questa è una cosa che manca in questo precetto. La verità è che quando comprendiamo la nostra sofferenza, il nostro dolore, solo allora possiamo veramente comprendere la sofferenza degli altri. Qui diciamo che dobbiamo servirci di mezzi come l’audio e i contatti personali per risvegliare gli altri alla sofferenza. Ma nel mondo ci sono già un sacco di persone che si risvegliano a vicenda alla sofferenza.

Il punto è riconoscere la sofferenza in noi stessi e scoprire perché c’è quella sofferenza, cioè il lavoro di guardare in profondità. E di questo non si parla in questo addestramento alla consapevolezza. Bisogna comprendere che una delle debolezze più diffuse oggi è che vogliamo fuggire dalla nostra stessa sofferenza. In noi c’è sofferenza, ma non abbiamo il coraggio di tornare a noi stessi, di guardarla in profondità. Cerchiamo di coprirla consumando, usando la musica, i giornali, i romanzi, i divertimenti per coprire le nostre sofferenze. E ora abbiamo internet per aiutarci a coprirle. Non usiamo internet perché ne abbiamo davvero bisogno, usiamo internet perché non vogliamo entrare in contatto con le nostre sofferenze. Non vogliamo essere in contatto con la nostra sofferenza, non vogliamo “tiếp” la nostra sofferenza. Vogliamo essere in contatto con le meraviglie della vita. Ma dobbiamo essere in contatto anche con la sostanza della sofferenza, la base della sofferenza, la radice della sofferenza in noi stessi. E una volta compresa la radice della sofferenza in noi stessi, solo allora possiamo trovare un modo per porvi fine. E una volta compresa la nostra sofferenza, non faremo più soffrire gli altri. Questo è qualcosa che manca in questo addestramento alla consapevolezza e deve essere rivisto. Proprio come l’amore. Se non possiamo amare noi stessi, prenderci cura di noi stessi, come possiamo amare gli altri e prendercene cura? Dobbiamo capire noi stessi prima di poter capire gli altri. Amare noi stessi prima di poter amare l’altro.

Senza questo amore, ci distruggeremo entrambi, ci trascineremo a vicenda tutti e due, tre o quattro nell’abisso della sofferenza.

Thay ha chiesto a un gruppo di persone di esaminare i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza – Sr. Trung Nghiem [?], Tung [Tong?] Nghiem, Sr. Dinh Nghiem, Thai Phap Luu, ecc. – e proporre all’Ordine dell’Interessere dei suggerimenti per la revisione. Se avete tempo, vi prego di discuterne. Ci sono addestramenti che si potrebbero anche unire, da due addestramenti elaborare un nuovo addestramento alla consapevolezza.

Il Primo Addestramento alla Consapevolezza, il Secondo Addestramento alla Consapevolezza, il Terzo, il Quinto, il Quattordicesimo, l’Undicesimo, il Tredicesimo, possono essere tutti rivisti, migliorati. Per esempio il Primo Addestramento alla consapevolezza. Parla del fanatismo e dell’intolleranza che portano alla guerra, alla sofferenza. Ci ricordiamo della profonda verità che riguarda la visione dualistica. A causa del dualismo, del fatto non riusciamo a vedere le cose con uno sguardo non dualistico, nasce la discriminazione. E non solo nella società, ma anche nell’etica, nella filosofia, nella scienza, la questione del dualismo è un grande ostacolo ovunque.

In particolare… il dualismo tra materia e spirito, tra mente e corpo, la discriminazione tra soggetto e oggetto, non rappresenta un ostacolo solo in politica, nella società, in psicologia, ma anche nella scienza. Quindi nel Primo Addestramento alla Consapevolezza bisogna introdurre la visione profonda della non-dualità, del non-dualismo. La visione profonda del non-dualismo può porre fine alla discriminazione, al pregiudizio. Nei Cinque Addestramenti alla Consapevolezza è già stata introdotta. Perciò, quando rivedremo i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, bisognerà studiare i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza, perché adesso i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza sono davvero ben fatti. Ora nei Cinque Addestramenti alla Consapevolezza ci sono elementi che non sono ancora nei Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, e che vanno riportati anche nei Quattordici.
Quando abbiamo rivisto i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza, tutti i buoni elementi dei Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza sono stati trasferiti nei Cinque Addestramenti alla Consapevolezza. Ora i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza sono diventati un po’ come i precetti del bodhisattva. Basta praticare i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza per avere tanta felicità, per poter essere un bodhisattva.
In origine gli addestramenti alla consapevolezza dell’Ordine dell’Interessere erano concepiti come l’equivalente dei precetti del bodhisattva. Chi ha ricevuto questi precetti, non ha bisogno di ricevere quelli, chi ha ricevuto gli addestramenti alla consapevolezza dell’Ordine dell’Interessere non ha bisogno dei precetti del bodhisattva. Non sono precetti del bodhisattva datati. In Vietnam, i monaci e le monache devono ricevere i precetti del bodhisattva secondo la tradizione. Ma qui invece abbiamo gli addestramenti alla consapevolezza dell’Ordine di Interessere che sono considerati come i nostri precetti del bodhisattva. Sono ottimi addestramenti alla consapevolezza. Grazie alla nostra pratica, alla nostra ricerca, ora i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza sono davvero completi, interamente riveduti. Così, quando si tratterà di rivedere i Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza, bisognerà tornare a studiare i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza così come sono ora.
Nei quarantacinque anni in cui il Buddha ha insegnato e praticato, il suo modo di insegnare è cambiato molto. E noi dobbiamo fare lo stesso. La ruota del Dharma deve girare ogni giorno.
Dopo trent’anni di esistenza, è evidente che Plum Village non ha mai smesso di progredire, di avanzare, di sviluppare nuove porte del Dharma, nuovi modi di insegnare, più benefici, più efficaci. Quindi non dovremmo accontentarci dei Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza così come sono ora. Dobbiamo creare un consiglio dell’Ordine dell’Interessere, un’assemblea dell’Ordine dell’Interessere, per rivedere gli addestramenti alla consapevolezza. E a questo scopo abbiamo un comitato che si sta già occupando della revisione. Ma una volta ultimata la revisione, bisogna che un’assemblea dell’Ordine accolga la revisione. E i nuovi Quattordici Addestramenti alla Consapevolezza devono essere buoni quanto la nuova revisione dei Cinque Addestramenti alla Consapevolezza, auspicabilmente anche migliori. Questo è il lavoro che dobbiamo fare.
Nel campo della [tecnologia], ogni anno hanno ci sono nuovi computer, nuovi software. Nel campo della scienza è lo stesso, ogni anno ci sono sempre nuove scoperte scientifiche. Nel buddhismo è lo stesso. Dobbiamo fare passi avanti anno dopo anno. E il buddhismo può aprire la strada. L’Ordine dell’Interessere dovrebbe essere consapevole che siamo all’avanguardia. Dobbiamo aprire nuove strade. È questo che i Buddha e i maestri ancestrali si aspettano da noi, si aspettano che facciamo così.
I primi sei membri dell’Ordine dell’Interessere hanno ricevuto gli addestramenti alla consapevolezza nel tempio di Phap Van nel 1966. Quanti anni sono passati? E quante volte sono stati riveduti? Sono già stati riveduti diverse volte. E ora devono essere riveduti di nuovo. È molto il lavoro del Buddha che deve ancora essere compiuto. E dobbiamo fare questo lavoro nello spirito della pratica, guardando a questo lavoro come all’oggetto della nostra pratica, e non come a un lavoro. Bisogna essere felici di farlo. Bisogna avere energia. Bisogna che incarni il Dharma vivente.

Thay è già vecchio, ma ha ancora molta energia e continua a tradurre. Thay pensa che il suo modo di tradurre stia migliorando, che sia più facile da capire. E Thay ha molta felicità. Quando traduce i sutra, quando insegna, quando pratica, quando cammina, quando insegna agli altri come praticare. È una questione di energia. Quando sentiamo di non avere più energia, è perché non abbiamo quell’energia, ci manca quel che si chiama “aspirazione”, l’energia chiamata “aspirazione”. Abbiamo bisogno del potere… dell’energia… dell’aspirazione. Siamo decisi a fare qualcosa. Vogliamo fare qualcosa per il nostro paese, per i nostri antenati, per la nostra nazione, per la nostra società. Dobbiamo avere un ideale. Dobbiamo avere il potere dell’aspirazione.

Dobbiamo avere la fede, la fiducia. Ci sono monaci, monache, laici e laiche che non sentono energia a sufficienza nella loro pratica, che non provano abbastanza agio nella loro pratica, che non praticano, non vogliono studiare, non vogliono praticare, non hanno il potere dell’aspirazione, non hanno questo fuoco nel cuore, ma ogni membro dell’Ordine deve avere un fuoco nel cuore che offra calore, che ci spinga in avanti. E quando avanziamo così, siamo felici, che si tratti di spazzare il pavimento per il Sangha, cucinare per il Sangha, innaffiare il giardino per il Sangha o pulire i bagni per il Sangha: siamo felici perché abbiamo in noi l’energia, abbiamo lo scopo. L’obiettivo non è la fama, il profitto, una posizione. Lo scopo è il grande amore, voler  essere la continuazione, voler essere una degna continuazione del Buddha, del nostro maestro e dei nostri maestri ancestrali.

Ora andiamo a praticare insieme la meditazione camminata, per essere felici camminando.

[tre suoni di campana]

(traduzione di Sister Annabel)